Un report sulla giornata del 17 aprile,
in difesa della salute della classe lavoratrice e della vita
– e sulle prossime iniziative
La giornata di sabato 17 aprile organizzata dall’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi in difesa della salute e della vita, è riuscita. Coinvolgere dai 200 ai 300 partecipanti per più di 8 intense ore di lavoro, con un migliaio di contatti sulle diverse pagine facebook, è un risultato che neppure il più vile dei nostri critici potrebbe definire negativo. È stato un contributo di analisi e di controinformazione al rilancio dell’iniziativa di classe su questo terreno.
Infatti, come è stato sottolineato nell’introduzione di Peppe D’Alesio e, tra gli altri, nell’intervento del coordinatore SI Cobas Aldo Milani e del delegato Gkn Dario Salvetti, dopo le forti risposte di lotta del marzo scorso, con l’astensione organizzata in molti magazzini della logistica e le proteste spontanee di diverse fabbriche metalmeccaniche del centro-nord, l’iniziativa dei lavoratori è rifluita. Non così il livello di contagio e di mortalità del covid, le cui cause sono strutturalmente legate al modo di produzione capitalistico e alla rovinosa (e dolosa) gestione dell’azione di contrasto alla diffusione del virus. Il riflusso dell’iniziativa proletaria si spiega sia con la repressione, accompagnata da un’opera di silenziamento istituzionale delle lotte in corso (salvo che si tratti delle proteste dei bottegai); sia con il fatto che gli stessi lavoratori più combattivi non sono riusciti a superare un livello elementare di auto-difesa, e a porre questioni di ordine generale concernenti le politiche sanitarie di stato. In questo anno è mancata anche una significativa attività sindacale di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro. La giornata del 17 si è posta quindi in netta controtendenza rispetto all’attitudine che è al momento egemone tra i proletari, e privilegia la difesa del posto di lavoro alla difesa della salute. Coerenti con l’impegno preso a Bologna il 27 settembre dell’anno scorso, le forze promotrici dell’Assemblea si sono assunte ancora una volta il compito di essere un passo avanti (forse due) rispetto allo stato di coscienza medio dei lavoratori su questioni che sono oggi cruciali, e lo resteranno per gli anni a venire.
I lavori si sono aperti con un’intervista a Rob Wallace, un biologo statunitense critico radicale dell’agribusiness, autore di studi di riferimento in materia, che ha indicato le cause strutturali delle epidemie di inizio secolo, dell’attuale pandemia e delle altre in arrivo – quelle cause su cui i mass media e il governo Draghi hanno decretato il più rigido coprifuoco, visto che non hanno la minima possibilità/volontà di iniziare a rimuoverle. Oggi ci si vuole imporre di concentrarsi sui vaccini, presentati come se fossero il miracoloso e finale rimedio all’emergenza sanitaria. L’Assemblea del 17 ha respinto al mittente questo diktat: dall’inizio alla fine è stata martellante la denuncia delle cause strutturali del disastro sanitario in corso. Queste riconducono tutte al sistema sociale capitalistico e alle sue non modificabili leggi di funzionamento, che è la fonte tanto delle crisi in generale, quanto di questa specifica crisi: la prima che è sorta sul terreno della riproduzione sociale, facendo esplodere la recessione economica incipiente e provocando un’accelerazione della crisi dell’ordine internazionale.
La formula “il capitalismo è il virus dei virus” (formula del tutto valida, se non rimane un semplice slogan) è stata riempita di contenuti all’interno del dibattito attraverso una serie di contributi relativi alla catastrofe ecologica in atto (Luc Thibault), alla demolizione della medicina del territorio e di ogni forma di reale prevenzione delle epidemie (Visconte Grisi), alla criminale determinazione con cui Confindustria e i governi Conte e Draghi hanno preteso di tenere permanentemente aperti i luoghi di produzione, quelli realmente essenziali e quelli tali esclusivamente per la produzione dei profitti, e ora di riaprire anche quelli di commercio. La quasi totalità degli interventi ha avuto come comune filo conduttore il riferimento al contesto globale, partendo dall’assunto che questa è una pandemia strettamente legata al processo di globalizzazione della produzione e dei commerci, senza però trascurare le ragioni per cui l’epidemia ha colpito proprio l’Italia con speciale durezza. Una serie di testimonianze di operai e quadri sindacali (di SI Cobas, Slai Cobas psc e opposizione Cgil) da Brescia, Milano, Piacenza, Bergamo, Bologna, Firenze, hanno messo in luce e valorizzato la reazione operaia all’irruzione della pandemia nello scorso anno, senza nascondersi i limiti di questa risposta misurabili dalla massa di contagi e dal numero rilevante di morti tra i proletari, tanto nella prima quanto, forse più, nella seconda ondata.
Al pari dei terremoti, questa pandemia/sindemia è stata un rilevatore della divisione in classi della società, in quanto ha colpito quasi esclusivamente le classi subalterne. Ed è stata un evidenziatore di tutte le altre disuguaglianze e forme di oppressione, quelle di “razza” e di genere in primo luogo. Lo hanno messo in luce sia gli interventi dai luoghi di lavoro, sia gli interventi relativi alla condizione degli immigrati e dei rifugiati, sia quelli relativi al sovraccarico di pesi e di sofferenze che la gestione capitalistica della pandemia ha comportato per le donne, specie le donne proletarie e le proletarie immigrate. Una compagna del Comitato 23 settembre li ha ricondotti ad una serie di circostanze concatenate: il venir meno delle strutture di assistenza, il maggior impatto col virus delle attività di cura in cui sono occupate in prevalenza le donne, l’impossibilità di curare le malattie croniche, la necessità/abitudine delle donne di anteporre la salute dei familiari alla propria, la pericolosità della convivenza forzata con il conseguente incremento della violenza in famiglia. Circostanze che vengono da una precedente “normalità” malata di patriarcalismo capitalista. A sua volta, un compagno dell’opposizione in Cgil di Milano, in contatto con le associazioni e i comitati dei familiari delle RSA, ha denunciato l’uso “eugenetico” della pandemia nei confronti degli anziani, considerati pesi morti “improduttivi” per la società. In realtà gli effetti più gravi della pandemia si sono prodotti là dove si sono inseriti su criticità preesistenti, anzitutto sul substrato di malattie croniche presenti nella maggioranza della popolazione – e in assenza di adeguate contromisure.
In un contesto quale quello dell’Assemblea delle/dei proletari combattivi che si vuole ed è, non a chiacchiere, internazionalista, non poteva mancare e non è mancata la denuncia degli effetti differenziati della pandemia legati alla divisione internazionale del lavoro tra paesi imperialisti e paesi dominati e controllati dall’imperialismo. Se ne è fatto carico, in particolare, il vibrante intervento di Miriam Jaramillo, del Comitato immigrati/IMA, che ha bollato a fuoco l’“imperialismo dei vaccini”, altra faccia di quello dell’agri-business, del furto delle terre, delle discariche, del debito estero, delle guerre, e le discriminazioni correnti ai danni di immigrati e rifugiati.
L’intricato nodo dei vaccini è stato affrontato con un’intervista a Ernesto Burgio, medico di fama internazionale per il suo impegno nella lotta per la prevenzione delle malattie (del cancro, in specifico), che da un lato ha sottolineato la funzione storica dei vaccini nel contrasto a veri e propri flagelli quali il vaiolo, la poliomielite, etc., dall’altro ha messo in evidenza una serie di criticità dei vaccini predisposti da Big Pharma per debellare il covid-19. Burgio ha inoltre posto a confronto il metodo adottato in diversi paesi asiatici e a Cuba (tracciamenti di massa, rigide chiusure delle aree-focolaio, aree riservate per malati di covid) con il metodo seguito in Occidente, dove l’intervento territoriale è stato pressoché azzerato, s’è scelto di non circoscrivere i focolai e tutta la risposta si è concentrata sugli ospedali, diventati così tra i maggiori centri di infezione, in attesa dell’arrivo dei portentosi vaccini – che potranno solo ridurre il danno, dopo che i danni sociali sono stati massimizzati. Su queste basi Piero Favetta ha illustrato con chiarezza come si combina, in una logica di classe critica verso lo stato, il fermo no al decreto Draghi e la difesa dei lavoratori colpiti da misure disciplinari col rifiuto di ogni forma di irrazionale ripulsa dei vaccini in quanto tali, a cui ha contrapposto l’attivazione di meccanismi di controllo da parte dei lavoratori, e non del solo personale sanitario, sull’operato delle strutture sanitarie e delle strutture di ricerca.
Il nefasto ruolo di Big Pharma è stato ovviamente chiamato in causa, ma l’Assemblea non si è limitata a un generico anti-capitalismo o, peggio, anti-monopolismo. In specie nelle conclusioni sono stati chiamati in causa i governi Conte-bis e Draghi e le istituzioni statali per le loro primarie responsabilità nella causazione del disastro sanitario in corso, e per l’uso capitalistico e terroristico di una pandemia sotto ogni aspetto capitalistica. I governi hanno infatti approfittato dell’emergenza covid per imporre stabilmente, come permanenti, misure di de-socializzazione attraverso la adozione su larga scala del lavoro a domicilio, ribattezzato ingannevolmente “smart working”, e della didattica a distanza, feroce strumento classista di una scuola classista già per la sua struttura e la cultura che diffonde. L’uso “terroristico” della pandemia si è realizzato invece attraverso una serie di norme di comportamento tanto dettagliate quanto, spesso, arbitrarie, e divieti di scioperare e manifestare iniziati con l’8 marzo 2020, con un’incalzante repressione di stato contro le lotte dei facchini della logistica e i pochi altri casi di conflittualità esistenti nei luoghi di lavoro e nei territori. Sotto questo aspetto è stato centrale, nella prima parte della giornata, l’intervento da Piacenza di Arafat (delegato SI Cobas), da cui è emerso chiaro come il sole il ruolo delle istituzioni statali nello spalleggiare la Tnt-FedEx nella sua decisione di chiudere il magazzino che per un decennio è stato all’avanguardia delle lotte della logistica in Italia, assecondando così la pretesa di FedEx e dell’insieme dei capitalisti di usare la pandemia per abbattere il costo della forza-lavoro e introdurre sui luoghi di lavoro una disciplina da nuovo schiavismo.
La pandemia ha avuto un effetto devastante, sebbene poco visibile al momento, anche sulla salute mentale di molti, in particolare negli strati sociali più precari. Già la crisi economico-sociale del 2008 aveva acuito una preesistente situazione di criticità; l’avvento della pandemia ha fatto il resto provocando un ulteriore aumento e acutizzazione dei casi di sofferenza mentale. Ne hanno trattato Adriano Coluccia ed Enrico De Notaris del Comitato di lotta per la salute mentale, e Walter Iannuzzi dell’Assemblea popolare per la salute di Napoli. I loro interventi hanno smontato la gestione della salute mentale fondata sulla logica dell’emergenza e la concentrazione sui sintomi tipica del processo di mercificazione della salute, e vi hanno contrapposto la concezione e la pratica della cura come attività che considera la persona nel suo insieme, legando la cura alla solidarietà di classe e alla lotta per il miglioramento complessivo delle condizioni di vita, vere e proprie armi terapeutiche in mano alla classe lavoratrice. Questi interventi hanno, contestualmente, rivendicato la necessità di istituire presidi sanitari sui luoghi di lavoro, e prospettato la creazione di presidi psicologici per il supporto e il sostegno alla salute mentale, pagati dalle aziende che con il loro lavoro la minano, ma sotto controllo operaio e dei lavoratori.
In tale ampia disamina delle cause e degli effetti della crisi in corso, se c’è stato un punto debole, ha riguardato le complesse trasformazioni in corso nell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche, già avviate prima di questa epidemia, e accelerate dal suo corso, che prendono il nome in codice di “industria 4.0”. Non è mancata, però, la denuncia del carattere illusorio e contingente della “ripresa” economica favoleggiata con il battage sul Recovery Plan laddove le sole cose certe, allo stato dei fatti reali, sono così sintetizzabili: più sfruttamento, più povertà, più repressione, e dunque – anche – più malattie. Questi i temi dell’intervento del Centro di documentazione contro la guerra di Milano.
La seconda parte della giornata ha allargato lo sguardo dalla pandemia da covid-19 alle vecchie nocività e provato a tracciare le linee dorsali di un intervento organizzato sui luoghi di lavoro e nei territori coerente con due principi fondanti: la salute non è una merce, la nocività non si monetizza. La prospettiva generale enunciata come riferimento programmatico è stata quella della “creazione” o “promozione” di salute, salute fisica e mentale inscindibilmente, facendo al tempo stesso i conti con l’attuale difficoltà a far assumere l’autodifesa attiva della salute come un compito importante dagli stessi lavoratori/lavoratrici combattivi. Quest’oggettiva contraddizione, dovuta all’attuale stato di passività della classe, non ci ha indotti a fare sconti nell’analisi e denuncia della situazione nei luoghi di lavoro e nella società. Né ci ha indotti, come in altri contesti accade, a idealizzare un passato nel quale sarebbe esistita in Italia una struttura sanitaria che, in quanto “pubblica” e in quanto non dominata dai canoni “neo-liberisti”, avrebbe saputo garantire la salute dei proletari e della popolazione non sfruttatrice. L’istituzione del servizio sanitario nazionale, la legge Basaglia, la legge n. 194, sono state l’esito di un’importante stagione di lotte operaie e popolari anche sul terreno della salvaguardia e promozione della salute; ma in nessun caso le strutture che da quel ciclo di lotte sono nate hanno saputo mantenere le promesse iniziali e rispondere in pieno al bisogno di salute delle masse sfruttate. Lo hanno dimostrato tanto gli interventi di medici da sempre al fianco della classe lavoratrice (Antonio Bove, Vito Totire), quanto gli interventi di operatori sanitari e militanti impegnati da tempo in prima linea (come Francesco Cappuccio – fondamentale il suo richiamo a Maccacaro e all’abissale differenza tra l’affermazione del diritto alla salute e la “medicina della cura”- e Gianni Sentinelli), o di nuova militanza come Giulia Maderni e Ilaria Canale. Da questi interventi è emerso che bisogna ripensare la stessa concezione della medicina, lo stesso tema della prevenzione, da mettere al centro, insieme con lo sviluppo della medicina del territorio (con cui, però, non coincide), di una piattaforma di lotta che rispecchi integralmente le necessità della classe lavoratrice, dentro e al di là della pandemia da covid-19.
Il punto di partenza obbligato di una ripresa di iniziativa sul terreno della difesa della salute e della vita contro un capitalismo sempre più necrofilo non possono che essere i luoghi di produzione e di lavoro. È stato questo il tema degli interventi dello Slai Cobas psc sull’Arcelor-Mittal di Taranto, ed in particolare di Michele Michelino (del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio) e di Luciano Orio (Voci operaie – Bassano), che hanno denunciato come l’avvento della pandemia rischi di occultare l’“olocausto dimenticato” di migliaia e migliaia di morti sul lavoro o di lavoro (di malattie professionali, a cominciare da quelle contratte con l’amianto), i morti per il profitto (su scala mondiale, 2 milioni ogni anno). Nei loro interventi è tornata forte la necessità di collegare la lotta per la salute sui posti di lavoro con la lotta contro la catastrofe ambientale, senza nessuna forma di delega né ad “esperti”, che nella quasi totalità dei casi sono esperti nell’assecondare le pretese padronali e nel comprimere i bisogni dei lavoratori, né a movimenti sociali che finora non sono stati capaci di afferrare le radici capitalistiche delle catastrofi ambientali, e spesso neppure di avvicinarsi ad esse. La necessità di un tale collegamento è stata ribadito da una compagna del Collettivo Bagnoli libera, attiva in Friday for Future. Mentre una compagna dell’Assemblea donne/lavoratrici Mfpr ha energicamente rivendicato il protagonismo femminile nelle lotte contro la precarietà e per la sicurezza del posto di lavoro e della salute nei più diversi settori, dalla scuola all’agricoltura. Quanto infine alla scuola, una compagna dell’opposizione Cgil ha mostrato come nel bailamme di continue chiusure e aperture, totali o parziali, delle scuole, nulla è stato realmente fatto per mettere in sicurezza i trasporti pubblici per gli studenti e le strutture scolastiche, creando in questo modo rischi evitabili per gli insegnanti, gli studenti e l’intera popolazione.
La giornata è stata ricca di spunti e contributi utili a tracciare le coordinate di classe fondamentali per inquadrare l’attuale pandemia e, più in generale, la tutela della salute della classe lavoratrice aggredita quotidianamente dal capitale, guardando quindi, com’è indispensabile, ben oltre l’immediato. E, su queste basi, si è conclusa con l’assunzione di due scadenze di mobilitazione per le prossime settimane:
1. le mobilitazioni del 1° maggio a Milano e Napoli, nelle quali saranno portate – insieme alle parole d’ordine contro la repressione e i licenziamenti di massa, e alla lotta per il permesso di soggiorno incondizionato per tutti gli immigrati – le tematiche della difesa della salute e della vita e del fronte unico di classe, con il massimo sforzo possibile di concentrazione delle forze, evitando una moltiplicazione di iniziative che, per piccole ragioni di bottega o logiche localiste, ne favorisce l’irrilevanza.
2. la costruzione di una giornata di mobilitazione a Roma per il prossimo 21 maggio, in occasione del Global Health Summit del G-20. Si tratta, per noi, di un’occasione in cui portare le tematiche, le parole d’ordine e le lotte di questi mesi in difesa della vita, della salute, del salario e dell’occupazione, e per denunciare le pesantissime responsabilità della classe dominante e delle istituzioni internazionali nel disastro sanitario e sociale attuale.
Sono stati inoltre formalizzati i seguenti impegni:
1. costituire una rete territoriale di vera prevenzione delle malattie “dal basso”, capace di praticare, per quanto possibile, la prevenzione stessa, costituita da comitati proletari e popolari;
2. mettere a punto protocolli di difesa della salute nei luoghi di lavoro, in relazione alla pandemia (tutt’altro che superata) e alle altre nocività, rafforzando i protocolli già firmati da SI Cobas e altri organismi sindacali nei mesi passati; massimo impegno per eleggere gli RLS ovunque sia possibile, come strumenti di lotta contro il padronato in difesa della salute dei lavoratori e per sensibilizzaree i lavoratori stessi;
3. organizzare, con l’apporto di medici e studiosi solidali, momenti di formazione per i delegati e per le lavoratrici e i lavoratori che sono maggiormente interessati a queste tematiche, primo passo per attuare un coinvolgimento di una platea più ampia.
4. pubblicare gli Atti di questa iniziativa.
Con la riuscita di questa giornata l’attività dell’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi ha segnato un rilancio che si potrà consolidare solo se da parte delle sue forze promotrici e di quelle che vi si sono aggregate proseguirà lo sforzo di percepire, comprendere ed intercettare il profondo scontento che sta maturando nella massa dei lavoratori sotto la coltre di passività che prosegue da anni. Ma che è destinata inevitabilmente ad interrompersi.
24 aprile
Qui si possono ascoltare alcune relazioni e interventi tenuti il giorno 17 aprile: