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[CONTRIBUTO] L’islamofobia, un’arma contro gli immigrati islamici – IV (ita – عربى)

Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

L’11 settembre dello scorso anno abbiamo iniziato la pubblicazione a puntate di un ampio scritto contro l’islamofobia, opera di un redattore di questo blog. Lo scritto è di alcuni anni fa, ma conserva intatta la sua attualità. Ed è questa la ragione per cui l’abbiamo proposto.

Perché l’islamofobia era ed è un coltello nelle mani dei padroni contro i proletari e le popolazioni immigrate dai paesi di tradizione islamica, un’arma contro tutte le popolazioni immigrate, e per dividere i proletari autoctoni dai loro fratelli immigrati.

Siamo coscienti di essere isolati in questa denuncia, essendo il sentire di molti militanti profondamente bianco, e tutt’altro che alieno da sentimenti o pregiudizi islamofobici.

Non ci scoraggia affatto constatare che, a differenza di altri nostri testi rilanciati da più siti o blog, letti sul Pungolo rosso e altrove da migliaia di persone, a quelli contro l’islamofobia sia capitata una sorte differente. Al contrario, ci rafforza nella convinzione che bisogna continuare a battere su questo tastoEd è quello che faremo, certi che dagli sfruttati e dagli oppressi del “mondo islamico”dai proletari e dalle proletarie immigrati in Italia e in Occidente dai paesi di tradizione islamica, verrà un contributo di grande importanza alla ripresa del movimento rivoluzionario internazionale e internazionalista.

Questa quarta puntata si concentra sui molteplici, pesanti effetti che l’islamofobia ha sull’esistenza delle popolazioni immigrate di fede, vera o presunta, islamica, e – per la proprietà transitiva – sull’esistenza di tutte le popolazioni immigrate.

Ad uso di chi dovesse leggerci per la prima volta su questo tema, ripubblichiamo la nota introduttiva che scrivemmo l’11 settembre.

[LEGGI VERSIONE IN ARABO DEL TESTO]

Precedenti puntate

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La macchina dell’islamofobia ha riacceso i motori. 

Dopo la bruciante sconfitta patita in Afghanistan dagli Stati Uniti e dalla Nato, era scontato. E il ventesimo anniversario dell’11 settembre è l’occasione d’oro per una ripartenza alla grande, chiamata a nutrire i propositi di rivincita.

A reti unificate tv, giornali e social presentano i talebani e gli attentatori suicidi dell’11 settembre come il prototipo di tutti gli “islamici”. E attraverso questa mossa propagandistica le popolazioni dei paesi a tradizione islamica vengono additate nella loro totalità come i nostri irriducibili nemici – a meno che non prendano apertamente posizione a favore dei “nostri valori” (di borsa), e pieghino la schiena davanti alla pretesa occidentale di dominare e spogliare il mondo “islamico” per diritto divino. Il “diritto” acquisito con il colonialismo storico. 

L’islamofobia è un’arma di guerra: verso l’esterno, e all’interno delle “nostre” società. E per tale va denunciata e combattuta.

Un’arma per legittimare la guerra infinita che la gang degli stati imperialisti occidentali, l’Italia intruppata in essi, ha scatenato (da secoli) contro il mondo arabo e islamico per finalità che nulla hanno a che vedere con la civiltà, la democrazia, la libertà delle donne, e che non finirà certo con l’ingloriosa cacciata dall’Afghanistan. In questa guerra i poteri coloniali sono sempre riusciti – accade ora più che mai – a trovare collaborazione nelle classi proprietarie e negli strati privilegiati dei paesi arabi e islamici per torchiare a sangue, con il loro aiuto, i malcapitati contadini, minatori, braccianti, operai, diseredati, senza il minimo riguardo per la loro esistenza, tanto più se donne. E, in caso di loro ribellioni, sollevazioni o tentativi rivoluzionari, per usare il pugno di ferro per schiacciarli, o l’accerchiamento per soffocarli.

In Italia e in Europa la nuova campagna islamofobica ha come suo bersaglio interno gli immigrati e le immigrate dai paesi islamici, che costituiscono la parte più numerosa, energica ed organizzata del proletariato immigrato. Li si vuole intimidire e mettere in un angolo per fargli piegare la testa (quelli che l’hanno mantenuta dritta), additarli agli autoctoni e agli altri immigrati come pericoli da sorvegliare “tutti insieme” e, al minimo sospetto, punire (o anche senza altro sospetto che quello di essere “islamici”). 

Per noi, invece, sono compagni/e, fratelli e sorelle di classe, che qui in Italia vediamo spesso all’avanguardia delle lotte, così come vediamo nel nord dell’Africa e nel Medio Oriente i proletari e le proletarie che non vogliono piegarsi al “destino” dell’emigrazione battersi con coraggio contro i propri governi e i gendarmi dell’area (pensiamo solo allo stato di Israele), pagando un pesante tributo di sangue – protagonisti delle grandi sollevazioni del 2011-2012 di Tunisia, Egitto, Bahrein, Siria, Yemen, etc., e poi di nuovo di grandi movimenti di protesta nel 2018-2021 in Algeria, Libano, Sudan, Iraq, Iran – e Palestina!

Pochissime voci si stanno alzando contro questa nuova campagna anti-proletaria di islamofobia. Da internazionalisti rivoluzionari siamo, una volta di più, fuori dal coro dei sordi e degli ammutoliti. E abbiamo perciò deciso di pubblicare (a puntate) un ampio testo scritto anni fa contro l’industria dell’islamofobia da un nostro compagno. Lo pubblichiamo senza nessuna modifica. Nella puntata finale di questa serie (*) lo integreremo su alcuni aspetti relativi all’islamismo politico che sono rimasti, in esso, un po’ sullo sfondo, o non sono stati trattati in modo adeguato.

Battersi contro l’islamofobia occidentalista imperante e il suo segno di classe, battersi per l’unità tra proletari/e arabi e islamici e proletari autoctoni, infatti, non può comportare alcuno sconto all’islamismo politico. 

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L’islamofobia, nella cui diffusione sono attivamente impegnati tutti gli stati europei1, ha una doppia valenza: esterna, perché serve a motivare e sostenere le guerre neo-coloniali che l’Europa ha combattuto, combatte e combatterà contro i paesi arabi ed “islamici”; interna, perché la rappresentazione caricaturale, inferiorizzante, demonizzante dell’islam e dei popoli “islamici” viene usata senza tregua contro gli immigrati “islamici” (e contro tutti gli immigrati) essendo la migliore giustificazione possibile per le discriminazioni e il razzismo nei loro confronti. È qui che tutta l’islamofobia europea precipita: nel razzismo anti-musulmani. Che in Europa le popolazioni originarie dei paesi arabi ed “islamici”, anche quando si tratta di nati sul sacro suolo europeo, siano discriminate in modo sistematico emerge da tutte le inchieste che abbiano un minimo livello di decenza. Ne citerò soltanto due, entrambe istituzionali. Insospettabili, perciò, di esagerare.

Il Rapporto dell’Osservatorio europeo dei fenomeni razzisti e xenofobi intitolato Muslims in the European Union: Discrimination and Islamophobia (2006) riconosce che la ricostruzione delle relazioni, dei meccanismi e delle azioni che hanno a bersaglio i “musulmani” è molto incompleta e sottodimensionata, poiché per questi fatti “si registra una notevole carenza di documentazione e resocontazione”. Per dirne soltanto una: nessuno stato europeo, salvo la Gran Bretagna, raccoglie dati sulla nazionalità delle vittime di gravi crimini razzisti. Risultano comunque evidenti una molteplicità di discriminazioni ai danni degli immigrati “islamici”. Il loro tasso di disoccupazione è in genere alto, più alto di quello medio dell’insieme dell’immigrazione. Il loro accesso al lavoro è più difficile (i loro curricula vengono spesso scartati a priori). I risultati scolastici sono sempre inferiori a quelli degli autoctoni, e la distanza tra gli uni e gli altri tende a crescere2. Per loro l’accesso alla casa è molto più precario sia rispetto agli europei d.o.c. che ad altre nazionalità di immigrati anche perché l’accesso agli alloggi sociali gli è spesso precluso. In sintesi:

«I dati disponibili sulle vittime di discriminazioni mostrano che i musulmani europei sono spesso sovra-rappresentati nelle zone caratterizzate da cattive condizioni abitative, mentre la loro riuscita in campo scolastico è inferiore alla media [come si fa a studiare bene vivendo in cattive condizioni abitative? – n.] e il loro tasso di disoccupazione è più elevato della media. I musulmani spesso svolgono lavori che richiedono un basso livello di qualificazione. Come gruppo, sono sovra-rappresentati nei settori dell’economia a bassi salari»3.

Nei campi del lavoro, dell’istruzione e della casa gli immigrati di origine “islamica” sono discriminati spesso più degli altri immigrati, almeno in Spagna, Italia, Paesi Bassi e Portogallo. Quanto agli insulti, alle violenze fisiche più o meno gravi, alle uccisioni, dal Survey n. 2 del 2009 della European Union Agency for Fundamental Rights, primo studio istituzionale di qualche serietà in questa materia4, risulta che l’11% degli intervistati ha subìto nell’ultimo anno almeno un atto (in media sono tre) di violenza razzista. Dal momento che gli immigrati originari dai paesi “islamici” sono tra i 13 e i 15 milioni5, si può presumere che in Europa nel 2007-2008 un milione e mezzo di immigrati “islamici” o discendenti da immigrati “islamici” sia stato vittima di comportamenti violenti. Un dato notevole.

Altrettanto notevole è il dato sulle discriminazioni: il 34% degli uomini e il 26% delle donne – in termini assoluti sarebbero circa 5 milioni di individui – dichiara di aver subìto almeno un atto di discriminazione nel corso dell’anno precedente. Nei fatti si tratta di discriminazioni ripetute, in media circa 8 volte l’anno. Le discriminazioni sono più frequenti sui luoghi di lavoro, nell’accesso al lavoro, nei confronti dei più giovani e degli immigrati di recente. Il motivo percepito dagli immigrati è un mix di fattori “etnici” e religiosi. Ed è indicativo che nel 79% dei casi gli atti di discriminazione e quelli di violenza non siano stati denunciati, o per sfiducia nelle forze dell’ordine (“perché la denuncia non avrebbe alcuna conseguenza o perché comunque non cambierebbe nulla”) o perché la cosa è considerata normale. Discriminatorio è anche il comportamento delle forze di polizia nei loro confronti, se è vero che un quarto degli intervistati è stato fermato più volte nel corso dell’anno. In breve:

«I risultati qui riportati indicano alti livelli di discriminazione e di vittimizzazione, in particolare per quello che riguarda i giovani musulmani; mentre mostrano, nello stesso tempo, bassi livelli di coscienza e conoscenza dei propri diritti, e di fiducia nei meccanismi da attivare con i ricorsi e le proteste. Gli intervistati, in particolare i giovani musulmani, dimostrano inoltre di avere poca fiducia nella polizia come servizio pubblico» (p. 15 – corsivo mio).

L’Italia è la maglia nera dell’Europa. I lavoratori nord-africani presenti in Italia, infatti, dichiarano le più alte percentuali di discriminazione percepita in quasi tutti gli ambiti coperti dall’inchiesta. Il tasso di discriminati nella ricerca del lavoro tocca il 39%, sul luogo di lavoro il 33%, nei bar e in altri luoghi di incontro quotidiano, come i negozi, il 30-31%, nell’accesso alla casa il 29%, nella sanità il 26%, nei servizi sociali il 24%, nell’ambito dell’istruzione il 23%, nell’accesso al prestito il 25%. L’Italia si segnala anche per l’accentuatissima tendenza, pari al 74% dei casi, delle forze di polizia a fermare le persone per controlli sulla sola base della loro nazionalità o razza6 e per la nobile gara tra enti locali a chi vara le discriminazioni più dure7.

Neppure altrove, però, si scherza. In Francia, ad esempio, dove Sarkozy ha condotto l’ultima campagna elettorale all’insegna del rifiuto della Turchia islamica e del valore primario della “sicurezza”, dove la Cgt non si vergogna di far sgomberare con la forza (bastoni e lacrimogeni inclusi) una sua sede dai sans papiers che l’occupavano, l’immigrato maghrebino resta l’incarnazione del “nemico interno”8, e ne paga ovviamente le conseguenze anche in termini di licenziamenti. Emblematico il caso dei 70-80 lavoratori “islamici” dell’aeroporto parigino di Roissy licenziati nel 2006. La lettera di licenziamento diceva: «Considerando che le osservazioni del signor (segue il nome dell’addetto ai bagagli) non sono state tali da addurre la prova di un comportamento non suscettibile di portare danno alla sicurezza»… la vittima è tenuta a provare di essere insospettabile; se non ci riesce, la colpa è sua. La politica del sospetto, quindi, come altra faccia della politica del disprezzo.

In Germania la situazione sembra essere oggi un po’ diversa da quella raffigurata da Fassbinder nel mirabile Angst essen Seele auf o raccontata da Walraff in Ganz Unten. Ma nonostante il forte radicamento dell’immigrazione turca in Germania, nonostante l’alto numero di immigrati che hanno preso la cittadinanza tedesca, il recente rapporto governativo in materia di immigrazione ammette che anche nell’anno di grazia 2009 gli immigrati di origine “islamica” hanno in genere salari e livelli di istruzione più bassi della media nazionale, mentre i giovani figli di immigrati vengono spesso bocciati, quasi mai riescono ad entrare nei licei e solo in pochissimi riescono a laurearsi9. E – vista la non proprio eccezionale cura che si ha nel proteggere gli immigrati – può anche succedere che Marwa El Sherbini, giovane lavoratrice egiziana, sia assassinata con 18 coltellate davanti alla sua bambina di 4 anni all’interno del tribunale di Dresda dall’uomo che lei aveva denunciato per averla chiamata “terrorista” per il solo fatto di portare il velo10.

Come spiegare tanto accanimento nei confronti degli immigrati arabi ed “islamici”? Della prima ragione, la sfida posta all’Europa e all’Occidente dall’islamismo “anti-imperialista”, già abbiamo parlato a lungo. E non c’è dubbio che gli attentati dell’11 settembre e le decisioni prese dal governo degli Stati Uniti abbiano ingigantito al massimo la portata di questa sfida.

Ma c’è anche un’altra ragione non meno determinante: gli immigrati di matrice arabo-islamica, pur nella loro variegatissima composizione nazionale, linguistica, culturale, religiosa, e nella altrettanto varia gamma dei loro convincimenti e comportamenti individuali, costituiscono, se presi come insieme, all’incirca la metà degli immigrati in Europa (un tempo erano i due terzi). E soprattutto ne sono la componente al momento più diffusa su tutto il territorio europeo, più radicata, più strutturata, più organizzata, più costosa. Il direttore della Fondazione G. Agnelli, in proposito, afferma:

«All’interno del più vasto processo di integrazione della popolazione immigrata, il caso della componente musulmana presenta indubbie peculiarità e complessità. A differenza della maggior parte delle altre comunità immigrate, i cui membri privilegiano strategie di inserimento individuale e che comunque non pongono alla società di accoglienza richieste significative sul piano collettivo, la popolazione musulmana – o almeno molte delle organizzazioni che se ne dicono i rappresentanti – si distingue in tutti i paesi europei per la sua volontà di attuare il proprio inserimento enfatizzando la dimensione collettiva e avanzando articolate richieste di riconoscimento della propria identità religiosa negli ambiti più diversi della sfera pubblica sociale e istituzionale»11.

Il riferimento al solo ambito religioso è molto riduttivo, ma il punto centrale è proprio questo: un inserimento nelle società europee che “enfatizza la dimensione collettiva”, a cominciare da quella familiare. Oltre venti anni fa A. Sayad descrisse il processo di progressivo radicamento dell’immigrazione algerina in Francia, la sua tendenza a “costituirsi in una struttura permanente”12. Egli parlò allora di un “provvisorio duraturo”. Oggi siamo a un duraturo sempre meno provvisorio. Uno degli indicatori più chiari è dato dalla presenza massiccia di famiglie di immigrati dal Maghreb, dai paesi sub-sahariani di tradizioni islamiche, dal Pakistan, dalle ex-colonie olandesi. Non solo in Francia, in Gran Bretagna e in Olanda. In paesi di più recente immigrazione come l’Italia o la Spagna, le tappe di questo processo sono state bruciate in fretta da parte di immigrati di queste e di altre nazionalità.

Per i paesi di immigrazione, l’immigrazione di soli lavoratori e, se possibile, a tempo è la cosa più vantaggiosa. Il loro ideale è l’afflusso di gastarbeiter, meglio ancora se con contratti e condizioni da coolies. Diversamente stanno le cose per gli emigrati. Che in molti casi possono nutrire speranze e formulare piani di rientro, ma specie negli ultimi trenta anni riescono sempre meno a mettere in pratica il ritorno al proprio paese di nascita. Quasi ovunque sono stati i lavoratori arabi e “islamici” a prendere atto per primi di questo cambiamento (involontario) delle proprie prospettive. E a dare avvio al processo di stabilizzazione, inaugurando l’emigrazione delle famiglie13, con la relativa crescita, per gli stati europei, dei costi di “integrazione”.

Ma agli occhi delle istituzioni europee questa immigrazione ha colpe ancora maggiori: aver dato il proprio contributo, benché “generosamente ospitata” nella metropoli europea, alle lotte anti-coloniali dei propri popoli (l’ultima volta è successo nel corso dell’assalto israeliano a Gaza all’inizio del 2009) e alle più accese lotte operaie e sociali degli anni ’60 e ’70; l’essersi auto-organizzata per rivendicare tutti i propri diritti, non solo il diritto al permesso di soggiorno, in quanto lavoratori e in quanto cittadini; l’aver dato vita a una molteplicità considerevole di strutture associative; l’essere parte attiva, a livello di base, del movimento sindacale; l’aver protestato nei modi più accesi, incluse le rivolte, quando si è trattato di sanzionare comportamenti delle forze dell’ordine o misure di repressione, statali o private, intollerabili14.

Negli ultimi due decenni il centro di gravità organizzativo delle popolazioni arabe ed “islamiche” è venuto spostandosi dal movimento operaio alle strutture dichiaratamente islamiche. Ma almeno in Italia i delegati sindacali senegalesi e marocchini restano tra i più numerosi e attivi, e l’associazionismo dei bangladeshi rimane il fulcro dell’associazionismo (non confessionale) degli immigrati, almeno nella città di Roma. Inoltre, il timbro fortemente egualitario e solidale delle comunità di fede islamica15 fa sì che le moschee, oltre ad essere luoghi di istruzione religiosa, siano anche luoghi di socializzazione, aperti alle donne, nei quali si può parlare di molti argomenti della vita quotidiana, tenere vivo il senso di appartenenza nazionale e apprendere una solidarietà trans-nazionale. Luoghi, almeno in potenza, di resistenza alle discriminazioni e al razzismo.

Il martellamento contro gli immigrati “islamici” ha molteplici obiettivi. Comprimere il valore della loro forza-lavoro. Precarizzare la loro esistenza, che è divenuta “eccessivamente” stabile rispetto alle necessità di flessibilità del mercato globale. Dividerli al loro interno tra desistenti e resistenti. Spingere gli uni verso una solenne abiura delle proprie origini e gli altri verso una sorta di auto-ghettizzazione, salvo poi imputarli di separatismo e irriducibilità ai “valori” euro-occidentali. Contrastare l’ulteriore espansione numerica e il consolidamento delle loro organizzazioni. Creare un fossato tra loro e le altre nazionalità con differenti tradizioni culturali e religiose. Indebolire e recidere i molteplici legami che si sono andati formando, anche per iniziativa delle donne, tra le popolazioni “islamiche” e le popolazioni autoctone16. Al contempo, e non si tratta di una contraddizione, stati e governi europei recitano la commedia del dialogo con l’islam, cercando di costruire dei propri islam nazionalizzati attraverso organismi quali il Conseil française du cult musulman, l’Islamkonferenz in Germania, la Consulta islamica in Italia. Islam di stato composti da associazioni addomesticate e da “personalità” filo-occidentali, impegnate a fare da contraltare, se possibile non solo mediatico, all’islamismo politico dichiaratamente anti-occidentale.

I mass media, istituzioni di stato con l’apparenza della indipendenza, sono i primi martelli pneumatici in azione a ciclo continuo, non i soli. Esiste oramai in Europa una pluralità di formazioni politiche parlamentari, anche di governo (in Italia la Lega Nord è perno fondamentale del governo di destra) ed extra-parlamentari, che ha nell’islamofobia, nell’aggressione agli immigrati “musulmani” una sua fondamentale, se non la sua unica, ragion d’essere. C’è una Chiesa cattolica che, Vaticano in primis, riscopre di quando in quando vecchi toni da crociata. C’è un numero crescente di enti locali mobilitati dall’alto e auto-mobilitati nell’opporsi alla costruzione di moschee, nel limitare con provvedimenti amministrativi lo spazio pubblico per le associazioni islamiche, nel creare norme ad hoc per impedire l’accesso alla casa degli immigrati17. Per ricacciare indietro il “pericolo islamico” la mobilitazione istituzionale non è sufficiente; serve anche quella popolare. Ed è ad attivare questa che stati e governi europei sempre più mirano, in modo da poter presentare la selezione nazionale e razziale che già stanno praticando contro gli “islamici” per una politica chiesta a gran voce dal “popolo sovrano” (come è avvenuto in Svizzera, ad esempio, con la costruzione di nuovi minareti sottoposta al voto popolare).

Questo scontro riguarda l’intero mondo dell’immigrazione. Perché ove le popolazioni “islamiche” dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia presenti in Europa dovessero essere fiaccate, private dei limitati diritti che hanno conquistato, umiliate, frammentate in tanti ghetti isolati; ove dovessero essere risospinte ad una condizione coloniale, a formare una sorta di esercito di riserva dentro il proletariato immigrato18; ne risentirebbero in negativo tutti gli immigrati, a misura che queste popolazioni sono all’oggi il nocciolo duro dell’immigrazione europea19. E ne risentirebbe in negativo anche il mondo del lavoro autoctono, il cui destino è indivisibile da quello del lavoro immigrato. Ecco perché sarebbe vitale un’azione di contrasto all’islamofobia e al razzismo contro gli immigrati “islamici” ben altrimenti energica di quella esistente. Ecco perché, come scrive Fabio Perocco, l’attitudine nei confronti dell’islam e degli immigrati dai paesi “islamici” è il vero banco di prova dell’anti-razzismo.

Note

1 Su un paese, la Danimarca, che è rimasto fuori dalla documentazione presentata in questo libro, cfr. Brun E.-Hersh J., The Danish Disease. A Political Culture of Islamophobia, “Monthly Review”, june 2008, pp. 11-22.

2 Si possono vedere, a riguardo, gli studi del Programme for International Student Assessment (PISA) dell’Ocse.

3 Cito dalla sintesi del rapporto; i dati analitici relativi sono nel rapporto integrale. Complementare a questo rapporto è il documento a cura dell’EUMC, Perceptions of discrimination and Islamophobia (2006), basato su interviste in profondità con membri delle comunità musulmane in dieci paesi dell’Unione europea.

4 Per questa indagine sono stati intervistati dalla Gallup 23.500 immigrati nel periodo tra il 28 aprile e il 5 novembre 2008 in incontri durati da venti minuti ad un’ora. Il 24% degli intervistati era nato nel paese di residenza, il 52% era in quel paese da almeno 10 anni. Il 63% di essi non portava abitualmente abiti tradizionali o segni esteriori della propria appartenenza religiosa. Le domande riguardavano le esperienze vissute nei precedenti 12 mesi. Al momento è disponibile solo un Data in Focus Report che anticipa alcuni dei risultati più importanti dell’indagine.

5 Il Rapporto del 2006 citato in precedenza li stima in 13 milioni, ma una recentissima indagine svolta in Germania rivede al rialzo la cifra semi-ufficiale relativa alla Germania (3.400.000) portandola a 3,8-4,3 milioni (cfr. “Le Monde”, 28 juin 2009).

6 Sono confermati in pieno i risultati di una indagine dell’Open Society Institute curata nel 2002 da S. Ferrari, riassunti nel “Rapporto sulla situazione dei musulmani in Italia rispetto alla fruizione di beni e di servizi”.

7 L’ultima che ho registrato (nel febbraio 2010) riguarda il comune di Goito (Mantova), dove l’asilo comunale, per decisione del consiglio comunale, sarà riservato solo ai bambini le cui famiglie “perseguono finalità educative con una visione cristiana della vita”.

8 Cfr. Rigouste M., L’Ennemi intérieur, La Découverte, Paris, 2009; Id., Purifier le territoire. De la lutte antimmigratoire comme laboratoire sécuritaire, “Asylon(s)”, n. 4/2008.

9 Mi riferisco al Rapporto presentato il 25 giugno 2009 dal Ministero dell’interno tedesco a margine della Islamkonferenz, che riunisce dei rappresentanti dello stato e delle associazioni favorevoli ad un “islam secolarizzato”.

10 Un crimine totalmente ignorato dalla stampa europea, che ha avuto invece una forte eco in Egitto (cfr. il portale Al Masry Al Youm del 6 luglio 2009).

11 Cfr. Pacini A., Introduzione a Aluffi Beck-Peccoz R., Tempo, lavoro e culto nei paesi musulmanicit., p. XII (corsivo mio).

12 Cfr. A. Sayad, La doppia assenza, Cortina, Milano, 2002, pp. 80 ss.

13 Ivi, pp. 85-7.

14 Cfr. Boubeker A.–Hajjat A. (dir.), Histoire politique des immigrations (post)colonials, Ed. Amsterdam, Paris, 2008; Linhart R., Alla catena, Feltrinelli, Milano, 1978;Roth K.H., L’altro movimento operaio, Feltrinelli, Milano, 1976, cap. I; i saggi di Morice A., Sciortino R., Modica S., Kagné B.-Martiniello M. sulle più recenti lotte dei sans papiers e degliimmigrati in Francia, Italia, Svizzera e Belgio, in Basso P.– Perocco F. (a cura di), Gli immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo lotte, Angeli, Milano, 2003, pp. 345-462; Basso P., Sul rapporto tra immigrati e sindacati, in Mauri L.–Visconti M.L. (a cura di), Diversity management e società multiculturale. Teorie e prassi, Angeli, Milano, 2004, pp. 113-131.

Mi limito qui a ragionare sui lavoratori salariati. Ma è evidente che il processo di stabilizzazione dell’immigrazione araba-“islamica” ha comportato una progressiva stratificazione sociale, inclusa la nascita di strati imprenditoriali, in genere piccolo-imprenditoriale, di origini straniere. In Germania ci sono all’oggi 60.000 imprese industriali e commerciali con un titolare turco, con un fatturato complessivo di 15,1 miliardi di euro. Queste imprese occupano 360.000 salariati, un terzo dei quali è di nazionalità tedesca. In Italia in pochi anni le imprese con un titolare straniero hanno superato la soglia delle 240.000, il loro tasso di mortalità è molto alto, non meno alta è la quota di imprese fittizie, ma il fenomeno è comunque in espansione. E così via. In Francia, ad esempio, è appena nata una Synergie des professionnels musulmans de France, una sorta di sindacato padronale islamico.

15 Cfr. Dassetto F. –Bastenier A., op. cit., p. 98.

16 Le mediatrici culturali maghrebine sono in tutta Europa tra le più colte, mature e critiche, davvero capaci di gettare ponti, di tessere fili, tra storie e culture differenti, cioè tra differenti popoli e individui.

17 Per la situazione italiana che fa sotto molti aspetti da battistrada, si veda il saggio di F. Perocco nella seconda parte del volume.

18 Già oggi in Italia i lavoratori marocchini detengono il triste primato degli infortuni sul lavoro. Nostre ricerche a scala locale (in Veneto) mostrano che dopo il settembre 2001 non pochi di questi lavoratori, espulsi da un certo numero di piccole e medie imprese industriali, hanno dovuto ripiegare verso l’edilizia, l’ambito di lavoro con il maggiore rischio di infortuni.

19 L’immigrazione “islamica” è in Europa il corrispettivo di ciò che l’immigrazione latino-americana è diventata negli Stati Uniti.