Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Gerusalemme:
una Pasqua di provocazioni sioniste e di sangue
– nel silenzio generale
Nelle scorse settimane Gerusalemme, e la moschea di al-Aqsa in particolare, sono state il luogo di una catena di provocazioni anti-palestinesi e anti-islamiche da parte delle autorità dello stato di Israele e delle organizzazioni dei coloni. Sono prove di forza che schiacceranno per sempre le masse palestinesi e le indurranno alla resa? Assolutamente no. Come scriviamo nelle conclusioni: è da settantaquattro anni, dalla Nakba (1948), che i Palestinesi resistono. Invitti. Questa è la prova storica che la politica colonialista e razzista di Israele, fondata sulle espropriazioni senza fine, sulle discriminazioni da apartheid (che colpiscono anche una parte della stessa popolazione ebraica immigrata dal Corno d’Africa), su una repressione sistematica e spietata dotata delle tecnologie di avanguardia, non è in grado di piegare la resistenza palestinese che, come l’araba fenice, rinasce periodicamente dalle proprie ceneri. (Red.)
Una settimana di raid
Quella che è andata in scena presso la moschea di al-Aqsa nei giorni scorsi è stata la ripetizione di un medesimo tragico copione, che non è certo una novità nel quadro della persecuzione palestinese in Israele e nei Territori Occupati, ma ne rappresenta uno dei picchi più drammatici degli ultimi tempi.
Per tutta la durata della settimana di Pasqua – con la sola eccezione di sabato 16 aprile – le forze di polizia israeliane hanno fatto violentemente irruzione sulla Spianata delle Moschee, nella città Vecchia di Gerusalemme, con un solo obiettivo: sgomberare l’area dai fedeli musulmani in preghiera per il Ramadan in modo da lasciare spazio all’accesso/invasione dei coloni israeliani.
Il primo raid ha avuto luogo nella giornata di venerdì 15. I reparti israeliani, penetrati nella zona da più punti d’accesso, hanno preso d’assalto la moschea intorno alle sei del mattino, e hanno iniziato a disperdere i fedeli ivi raccolti. La polizia ha preso il controllo del tetto della sala di preghiera dell’edificio principale e ha iniziato ad aprire il fuoco sui fedeli, lanciando granate stordenti e gas lacrimogeno. Tutti coloro che non sono stati sgomberati dal cortile della moschea – o allontanati dal complesso – sono stati trattenuti nelle due principali sale di preghiera. I poliziotti hanno inseguito i fedeli nel cortile della moschea, malmenandoli, mentre i fermati sono stati costretti a rimanere sdraiati faccia a terra nelle sale di preghiera per la durata dell’operazione. La polizia, inoltre, ha impedito l’accesso dei medici alla zona, rendendo impossibili i primi soccorsi ai feriti. Oltre ai medici, anche i giornalisti sono stati allontanati dalla zona nel corso di tutta la settimana; un atteggiamento che il JSC (Journalist Support Committee) ha denunciato come un chiaro tentativo da parte di Israele di occultare le azioni criminali commesse nel corso dei raid.
Dopo alcune ore le forze di polizia israeliane avevano sgomberato quasi tutti i fedeli dai cortili della moschea, e si sono concentrati su quanti si erano barricati all’interno della sala di preghiera rifiutandosi di essere allontanati dal luogo, continuando a intonare preghiere e slogan nazionali durante tutta la durata della sortita, e a percuotere le mura della moschea in segno di protesta.
Mentre queste operazioni erano in corso, gruppi di coloni, scortati da poliziotti armati di tutto punto, hanno fatto irruzione nella zona, in violazione del vigente status quo che vieta l’accesso e la preghiera degli ebrei nella Spianata.
Alcune ore dopo l’inizio del raid, la polizia ha riaperto l’accesso alla moschea, ma ai palestinesi è stato da subito evidente che quella appena raggiunta era solo una situazione di calma apparente, preludio a nuove tensioni per i giorni a venire. Timori più che fondati: infatti i raid, a cadenza giornaliera, hanno costellato l’intera settimana, con l’impiego di nuove misure repressive da parte della polizia. Sui tetti degli edifici adiacenti alla moschea sono stati dispiegate truppe di tiratori scelti, e sono stati istituiti posti di blocco nell’area della Città Vecchia e sulle strade dirette verso i cancelli di al-Aqsa. Ai fedeli – soprattutto ai giovani uomini – non è stato concesso di entrare nell’area per la preghiera del mattino, e alcuni di loro sono stati attaccati dalle forze israeliane nei pressi del cimitero di Yusufiya, vicino ad al-Aqsa. Altri hanno potuto passare, ma solo dopo avere consegnato i documenti identificativi.
Il bilancio finale di queste operazioni è stato di più di 200 palestinesi feriti e circa 450 “rivoltosi” arrestati; il tutto mentre 3.670 coloni israeliani, secondo i dati del Waqf (il trust che regola l’accesso alla zona), sono entrati nell’area scortati dalla polizia.
Questa serie di attacchi (che Sheikh Ekrima Sabri, imam della moschea, ha definito da subito un atto premeditato) è stato l’ennesimo segnale della pressione esercitata dal colonialismo israeliano sulla popolazione palestinese; una pressione che si è inasprita anche in funzione della coincidenza del Ramadan con le celebrazioni della Pasqua ebraica. Proprio in occasione delle festività, attivisti dell’ultra-destra nazionalista israeliana (alcuni di questi gruppi propagandano la necessità della distruzione della moschea per lasciare spazio a un Terzo Tempio) avevano espresso la volontà di recarsi alla moschea per effettuare sacrifici rituali di animali nel suo cortile e hanno tenuto perfino una manifestazione, nonostante il divieto formale delle autorità che nei fatti l’hanno consentito.
Non è la prima circostanza in cui raid violenti hanno avuto luogo ad al-Aqsa. Nel maggio dello scorso anno tali sortite (con centinaia di feriti tra i fedeli) hanno scatenato un’ondata di proteste e di repressione che è sfociata, dopo una serie di manifestazioni in Cisgiordania e nelle aree della Palestina occupate, nella guerra di 11 giorni contro Gaza in cui hanno perso la vita 256 palestinesi (di cui 66 bambini) e 13 israeliani.
Obiettivo di queste azioni è quello di stabilire di fatto una divisione degli spazi tra musulmani ed ebrei, realizzata con l’impiego della forza e l’allontanamento fisico dei palestinesi dagli spazi della moschea e delle zone circostanti.
Musulmani, Ebrei e al-Aqsa
La moschea di al-Aqsa è il terzo luogo sacro per l’Islam, e l’entrata di qualsiasi israeliano è definita dai palestinesi un’incursione dei colonizzatori. Stando agli accordi esistenti, solo la preghiera dei musulmani è consentita nell’area, mentre gli ebrei possono pregare presso il Muro occidentale. Israele, in realtà, viola nella pratica questi accordi, e sovente negli ultimi anni le forze di polizia israeliane, coloni e politici di altro profilo si sono recati alla moschea senza il permesso dei palestinesi.
Queste incursioni sono incominciate già dal 1967, subito dopo l’occupazione israeliana della parte orientale della città. All’epoca la bandiera di Israele venne issata sul tetto in seguito alla sua cattura da parte delle forze israeliane (7 giugno 1967), e la preghiera dei musulmani fu impedita per un’intera settimana. In seguito una serie di accordi stabilì il divieto di entrata degli ebrei nell’area della moschea. Inoltre la visita della moschea da parte di non-musulmani è regolata dal Waqf, un trust giordano-palestinese (la Giordania è custode dei siti cristiani e islamici nella città di Gerusalemme) che si occupa della gestione del luogo. Autorità israeliane sono preposte al controllo della zona (e il Wafq non può assumere guardie senza l’approvazione dello Shin Bet).
Già dopo pochi anni, tuttavia, la situazione ha iniziato a farsi più tesa: nel 1982 Alan Goodman, un americano-israeliano legato al movimento sionista e ultranazionalista Kach, entrò nella moschea con un fucile automatico uccidendo due palestinesi; nel 1990 il Temple Mount and Eretz Yisrael Faithful Movement (un movimento ebraico ortodosso) ha tentato di piazzare una pietra a partire dalla quale erigere il terzo Tempio. Le proteste dei palestinesi seguite a questa provocazione si sono concluse con l’uccisione da parte della polizia di più di venti palestinesi, e il ferimento di altri 150.
Da parte sua, il governo israeliano ha iniziato dal 1970 a sponsorizzare scavi archeologici – gestiti da gruppi di coloni – nell’area della moschea, pratica cui hanno fatto seguito svariate proteste concernenti l’integrità della struttura, anche per il sospetto che la parte israeliana volesse indebolire le fondamenta della moschea stessa.
Un “illustre” raid, effettuato nel 2000 dall’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon, è stato una delle provocazioni che hanno dato il via alla Seconda Intifada. Alla chiusura del conflitto, citando motivazioni inerenti alla sicurezza, Israele ha revocato a Waqf l’amministrazione delle visite di non musulmani alla moschea, sino ad allora condotte sulla base dell’effettuazione di prenotazioni.
Tale atto ha fatto crescere la presenza nella zona di colonizzatori ed estremisti di destra, che si muovono a dozzine nell’area della moschea su base pressoché quotidiana (con l’eccezione, di solito, dei venerdì e dei sabati). Queste incursioni sono organizzate in prevalenza da gruppi di religiosi e sionisti, che definiscono i raid delle “ascensioni al monte del Tempio”. Alcuni di loro, propagandando la necessità di abbattere la moschea per lasciare spazio al Terzo Tempio, domandano a gran voce che Israele dichiari il controllo ebraico totale dell’area, rendendo possibile la pratica del sacrificio e la preghiera per gli ebrei.
Dal 2017 in poi queste incursioni hanno preso la forma di vere e proprie visite guidate: protetti da poliziotti armati sino ai denti, i coloni entrano nella moschea in due diversi turni per pregare e svolgere rituali, oltre che per delle visite. Tali visite avvengono due volte al giorno (una alla mattina, una nel primo pomeriggio) quando la moschea è quasi del tutto priva di fedeli, non essendo l’orario della preghiera. In passato la polizia impediva ai visitatori ebrei di pregare durante i tour, ma tale prassi è venuta meno con il passare degli anni: il Waqf ha documentato lo svolgimento di preghiere e rituali nel corso di queste visite e nell’agosto del 2021 anche il New York Times ha mostrato come il governo israeliano, nonostante il tentativo di pubblicizzare la cosa il meno possibile, abbia di fatto permesso lo svolgimento di preghiere ebraiche dentro la moschea.
La durata e il numero di queste visite è aumentata nel corso degli anni; nel 2018, nella sola “Giornata di Gerusalemme” (festività ebraica che celebra la presa del controllo israeliano sulla città in seguito alla guerra del 1967), più di 1600 coloni sono entrati nell’area della moschea. I numeri parlano chiaro: mentre nel 2009 i “tour” hanno portato 5.658 coloni nella moschea, nel 2019, secondo alcune stime, si sono raggiunte le 30.000 unità.
Per i Palestinesi si tratta dell’ennesimo aspetto della pluridecennale strategia israeliana di “giudeizzazione” della città di Gerusalemme, per cancellare le sue radici islamiche e cristiano-palestinesi. Sheikh Najeh Bakirat, vicedirettore del Waqf, non ha dubbi: stante l’importanza che la moschea ha in senso identitario e nazionale per i Palestinesi, quale simbolo delle radici della resistenza e della lotta del popolo palestinese, appare evidente che l’intenzione ultima dello Stato è quella di cancellare progressivamente ogni traccia.
La preoccupazione dei palestinesi è che Israele stabilisca una divisione spaziale dell’area e/o una ripartizione temporale negli accessi per mettere in atto quella che sarebbe di fatto una divisione della moschea tra musulmani ed ebrei; una pratica, questa, che seguirebbe il modello attuato negli anni Novanta del secolo scorso a Hebron, alla Tomba dei Patriarchi (peraltro chiusa lo scorso 17 aprile, in preparazione di un raid israeliano in vista della celebrazione della Pasqua ebraica). Le azioni dei giorni scorsi di Israele, con l’espulsione dei fedeli musulmani al fine di permettere l’accesso dei coloni, paiono confermano in pieno, in modo drammatico, tali timori.
Questa “politica del fatto compiuto” è alimentata di continuo dall’establishment politico israeliano. L’Ufficio del primo ministro è stato responsabile, durante il governo Netanyahu, della concessione di permessi ai politici che volevano recarsi alla moschea, e Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, alleati di Netanyahu e membri della Religious Zionism Alliance, hanno in questi giorni lanciato diversi appelli affinché venissero effettuati dei raid nella moschea durante il periodo del Ramadan e della Pasqua ebraica. Lo stesso Bennet, coinvolto in una traballante alleanza politica, ha tentato di rafforzare la propria posizione mostrandosi più oltranzista degli oltranzisti, promettendo addirittura che permetterà agli ebrei di effettuare riti e sacrifici sul terreno della moschea (una posizione a cui neppure Netanyahu si era mai spinto).
Le proteste e gli scontri in Cisgiordania e a Gaza
Per protesta contro l’assalto alla moschea si sono sviluppati disordini in svariate città, con più di duecento feriti tra i dimostranti. Secondo la Red Crescent in varie occasioni le forze di polizia hanno impedito ai medici giunti sul posto di prestare soccorso ai feriti. A Beita, vicino a Nablus, i cittadini si sono riuniti in preghiera sulle terre che Israele intende confiscare per lasciare spazio agli inserimenti di Jabal Sabih, ma una volta terminate le preghiere, le forze israeliane hanno attaccato i presenti (aprendo il fuoco anche contro un’ambulanza, colpita da cinque proiettili), tentando di disperdere i manifestanti ed espellerli dall’area.
Altri scontri tra giovani palestinesi e le forze di polizia israeliane si sono verificati a Beit Dajan, Qaryut e Qasra fuori da Nablus, all’entrata nord di Betlemme, nel villaggio di Kafr Qaddoum, a est di Qalqilya, all’entrata nord della città di Al-Bireh e presso Bab Al-Zawiya nel centro di Hebron.
Nel corso di lunedì 18 è arrivata conferma dell’arresto di 31 palestinesi che avevano preso parte a manifestazioni di solidarietà rispetto alle provocazioni avvenute ad al-Aqsa.
Il giorno successivo i jet israeliani hanno attaccato il settore meridionale della striscia di Gaza dopo aver intercettato un razzo lanciato dalla zona verso Israele. L’esercito israeliano dichiara di aver distrutto una fabbrica di armi di Hamas, che a sua volta ha risposto al fuoco con armi contraeree – è il primo attacco palestinese da Gaza nell’arco di mesi.
La famigerata “comunità internazionale” e la lotta palestinese
Il livello delle provocazioni e della violenza dello stato sionista contro i palestinesi a Gerusalemme ha raggiunto un nuovo picco nel corso di questo mese. Proprio il 15 aprile, il primo giorno degli scontri, la ONG svizzera Euro-Med Human Rights Monitor aveva segnalato come nell’ultimo periodo fosse avvenuta un’escalation nell’uso della forza da parte di Israele nei territori occupati della Cisgiordania e Gerusalemme Est, il tutto con il benestare dell’establishment politico.
I dati parlano da soli: nella prima metà di aprile, sono stati uccisi 18 palestinesi sono stati uccisi, portando il totale dei morti per 2022 a 47 (inclusi due donne e otto bambini), cinque volte di più rispetto allo stesso periodo del 2021 – ma nel silenzio generale.
La retorica della “guerra al terrorismo” impiegata per giustificare l’uccisione a sangue freddo dei palestinesi, già di per sé ripugnante, appare ancora più menzognera se si considera che queste uccisioni sono aumentate vertiginosamente dopo l’8 aprile, data in cui il primo ministro Bennet ha dato mandato alle forze militari di lanciare una guerra senza quartiere nei confronti dei “terroristi”.
Inutile dire: la famigerata “comunità internazionale” osserva in assoluto, omertoso silenzio i fatti di al-Aqsa, dando l’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, di giustificare a priori e sempre l’operato di Israele e colpevolizzare, per la loro resistenza, i palestinesi (sì, i palestinesi, perché la Palestina non esiste).
In realtà, a settantaquattro anni dalla Nakba (1948), i Palestinesi esistono e resistono. Invitti. Questa è la prova storica che la politica colonialista e razzista di Israele, fondata sulle espropriazioni senza fine, sulle discriminazioni (che colpiscono anche una parte della stessa popolazione ebraica immigrata dal Corno d’Africa), su una repressione sistematica e spietata dotata delle tecnologie di avanguardia, non è in grado di piegare questa resistenza che, come l’araba fenice, rinasce periodicamente dalle proprie ceneri.
Lo stato di Israele può moltiplicare in modo illimitato le sue provocazioni, le sue aggressioni, dare mano libera e protezione alle frange dei coloni più fanatiche e oltraggiose, ma tutto ciò che riuscirà ad ottenere è di suscitare contro di sé l’odio e il furore degli oppressi dell’intero Medio Oriente. A salvarlo – come stato etnico e colonialista – non basteranno i fitti rapporti che sta intessendo con le petrolmonarchie, anch’esse condannate dalla storia.
L’”invincibile” Israele ha già assaporato il gusto amaro della sconfitta, almeno parziale, nel 1973 e nel 2006 (in Libano). Le sue “imprese” poliziesche – tipo quelle illustrate in questo nostro pezzo – ne stanno logorando e screditando in modo irreparabile l’immagine nel mondo, perfino negli Stati Uniti dove era stata sempre vincente e convincente. L’apprezzamento crescente che queste imprese riscuotono da parte delle più spietate oligarchie e dentro i movimenti neo-nazisti, non farà che accelerare questo logorìo. Il futuro non è dello stato di Israele, non è del sionismo, del colonialismo, dell’imperialismo: è della liberazione rivoluzionaria degli sfruttati e degli oppressi del mondo intero. E tra questi i palestinesi (e gli ebrei anti-sionisti militanti) hanno da tempo un posto d’onore.