Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
I tre aspetti di questo 25 aprile:
bellicismo, resistenzialismo, pacifismo
(nella foto: picchetto operaio durante uno sciopero dei lavoratori della logistica)
1. Bellicismo
Questo 25 aprile ha avuto un timbro bellicista come non mai. L’anniversario (per l’Italia) della fine della seconda guerra mondiale è stato utilizzato dalla presidenza della repubblica e dal governo Draghi per giustificare e potenziare la partecipazione dello stato italiano ad una guerra contro la Russia e i suoi alleati, che è il possibile (o probabile?) inizio di una mostruosa terza guerra mondiale. Certo, come ogni pace imperialista, la pace di Yalta fu infame, garanzia certa di guerre a venire, ma ce ne vuole di pelo sullo stomaco per far coincidere la data di un fine-guerra con la celebrazione in pompa magna di un inizio-guerra (e che guerra!).
Di più: la tradizionale festa per la “liberazione dal nazifascismo” è stata usata quest’anno, più che in ogni altro anno precedente, per cementare l’appartenenza dello stato italiano a quella alleanza bellica, a quello schieramento (NATO, Occidente) che dal 1945 ad oggi hanno insanguinato e devastato il mondo con una brutalità che ha eguagliato e oltrepassato quella del nazismo. Bandiere NATO, bandiere a stelle e strisce, bandiere UE, bandiere tricolori (la bandiera del nostro nemico di classe), bandiere di Israele, bandiere ucraine, unite in un’orgia militarista e occidentalista, in una voluttà di spargere sangue altrui prolungando la guerra in Ucraina a tempo indeterminato, e portando – come NATO – la guerra in Russia e ovunque sia necessario, quale in Italia non si vedeva dai tempi dell’aggressione alla Jugoslavia attuata dal governo D’Alema-Mattarella (1999), o dai tempi del famelico assalto all’Etiopia (1936).
Arriva così al suo capolinea il revisionismo storico borghese (fascista, liberale, democratico) che ha puntato a svuotare di ogni significato l’apporto della classe operaia e degli sfruttati alla resistenza al fascismo, e a cancellare ogni traccia delle loro speranze in un cambiamento radicale dell’economia e della società nel post-fascismo. Un anno dopo l’altro, una mistificazione, una manipolazione dopo l’altra, il 25 aprile è diventata la festa delle istituzioni dello stato del capitale italiano, uscito dalla bruciante sconfitta patita dal regime mussoliniano pressoché indenne nella sua struttura e nel suo personale attraverso un paio di provvidenziali mani di vernice democratica.
Questo stato democratico è da tempo impegnato nella rivalutazione del fascismo (i cui eredi hanno peraltro soggiornato comodi nei seggi parlamentari – vedi l’MSI del repubblichino Almirante), e oggi, per i propri cinici interessi di rapina, è paladino del governo più condizionato dai raggruppamenti nazistoidi che ci sia in Europa, mentre mette sotto attacco la dirigenza dell’ANPI per costringerla a benedire la guerra in corso e quelle in preparazione come guerre giuste.
Per perseguire questi stessi interessi di rapina, il rivoltante circo mediatico eccita nelle immigrate e negli immigrati ucraini addolorati e furiosi per l’invasione della Russia di Putin, un sogno di rivincita attraverso una guerra di lunga durata, sotto egida NATO, che dà un’unica certezza a loro e ai loro cari: un’infinità di lutti e distruzioni, un livello di impoverimento e asservimento “allo straniero” (in questo caso occidentale, anziché russo) quale mai l’Ucraina ha conosciuto nel corso della sua tormentata storia.
Al proscenio dell’osceno spettacolo, per noi non sorprendente (dal momento che, per noi, tra democrazia e fascismo non c’è antagonismo), si è piazzata la dirigenza del Pd, che non ha alcuna ragione di risentirsi quando la si qualifica serva della NATO e fautrice della guerra e del militarismo, perché tale indiscutibilmente è. Non da oggi, i suoi oligarchi sono saldamente insediati ai vertici del complesso militare-industriale italiano di proprietà statale, o agiscono da strenui difensori dei gruppi monopolistici privati (Exor, etc.) che ne sono soci in affari. Senza con ciò voler fare torto a tutto il letamaio delle altre combriccole parlamentari di destra centro sinistra, sempre unite nelle scelte fondamentali a tutela dell’ordine capitalistico, e nelle relative, lautissime mangiatoie.
Il coronamento coerente di questo cammino è nella richiesta dei pretoriani di Libero: aboliamo il 25 aprile, sostituiamolo con una “festa della libertà” che celebri la NATO senza altre incomode presenze, perché “a liberarci dal nazifascismo sono stati i soldati americani, inglesi, neozelandesi, polacchi, quelli della Brigata ebraica, in altre parole qualcosa di molto simile a quello che oggi chiamano NATO, ma questo i comunisti di ieri non l’hanno mai ammesso e quelli di oggi non da meno continuano a manipolare la storia”. Beh, siamo già a buon punto… ed è per questo che una simile richiesta può essere formulata apertamente.
Una operazione simile – sbarazzarsi di ogni fastidioso riferimento alle tradizioni e aspirazioni del proletariato rivoluzionario, o comunque combattente per sé – avviene anche dall’altra parte della barricata. Non a caso Putin, nel suo discorso del 21 febbraio, ha sentito la necessità di legittimare la sua decisione di invadere l’Ucraina attaccando apertamente Lenin e la sua politica di riconoscimento del diritto di autodeterminazione dell’Ucraina. Le motivazioni della decisione di Putin richiamano dei fatti reali (lo sfondamento a Est della NATO, la trasformazione dell’Ucraina in una base NATO, il martellamento delle popolazioni del Donbass da parte dell’esercito e di milizie di stampo nazistoide), ma bisogna soffrire di cecità volontaria per non vedere che, con la guerra in Ucraina, la Russia di Putin persegue finalità borghesi di dominio e di sfruttamento, e non certo di liberazione dei lavoratori e dei popoli oppressi. Basti prendere in considerazione come hanno vissuto dal 2014 ad oggi i minatori e gli altri proletari del Donbass nelle repubbliche “popolari” filorusse, sottratte al potere reazionario di Kiev ma tuttora sottoposte a quello parassitario degli ‘oligarchi’ capitalisti [https://pungolorosso.wordpress.com/2022/03/01/come-vivono-i-proletari-nel-donbass-filo-russo-risponde-il-fronte-operaio-del-donbass/] ; o avere a mente le occupazioni altamente “liberatorie” di Afghanistan, Cecenia, Siria, e il più recente aiuto dato alle autorità del Kazakistan nel soffocare una sollevazione operaia e popolare…
Per questa ovvia ragione, ovvia per chi si pone dal punto di vista degli interessi del proletariato internazionale, noi siamo stati e siamo fermamente contro l’aggressione russa, per “difensiva” che sia, alla popolazione dell’Ucraina. Perché, oltre a produrre distruzione e morte (anche tra i proletari russi in divisa), la campagna di guerra del Cremlino sta spargendo i virus dello sciovinismo grande-russo e del nazionalismo anti-russo, che sono altrettanto letali – per il futuro dei proletari di tutti i paesi – del covid 19 e delle bombe.
Ma torniamo ora al “nostro” 25 aprile.
2. Neo-partigiani
Comprendiamo e condividiamo la rabbia e l’indignazione dei compagni che qua e là hanno provato a contestare spregevoli burattini del capitale globale del rango di Letta & Co., e la loro pretesa di identificare la “resistenza” ucraina di queste settimane con quella italiana del 1943-’45. Ma non ci aiuta – per i compiti di battaglia dell’oggi – opporre al revisionismo di stato e al bellicismo imperante di Mattarella/Draghi/Letta la retorica romantica di una Resistenza immaginaria che sarebbe da riconquistare nella sua purezza come modello ispiratore d’azione per i nostri giorni (i “nuovi partigiani”…).
Certo: va rivendicato che la sola vera opposizione al fascismo, promosso e puntellato fino all’ultimo suo giorno dai capitalisti e dai proprietari fondiari, è venuta, al suo sorgere e lungo tutto il ventennio, dalla classe operaia. Possiamo e dobbiamo ricordare il ruolo determinante che ebbero nell’indebolire il regime mussoliniano gli scioperi operai del marzo 1943 e quelli della primavera del 1944. Possiamo e dobbiamo mostrare il carattere anzitutto spontaneo della resistenza armata, composta in buona parte da proletari in divisa determinati a sottrarsi alla carneficina bellica, lavoratori renitenti all’arruolamento, braccianti e piccoli coltivatori decisi a farla finita con il regime protettore dei grandi proprietari terrieri sanguisughe. Questa è stata, come composizione sociale, la componente maggioritaria dei centomila appartenenti ai gruppi partigiani. E non sorprende affatto che il loro coraggio (in un paese dove questa virtù è rarissima, anche tra gli sfruttati), la loro abnegazione, i loro ideali di ribellione e di lotta (ancorché spesso confusi), ispirino tuttora, in positivo, centinaia di giovani compagni.
Ma a così grande distanza di tempo non può essere più elusa una prima questione-chiave: la direzione politica della resistenza al nazi-fascismo non fu certo nelle mani della componente proletaria. Anzi: i sacrifici dei combattenti (35.000 morti, 21.000 mutilati, 9.000 deportati in Germania) furono usati dai comandi anglo-americani e dai partiti borghesi ritornati in campo, la DC per prima, come una trasfusione di sangue realmente antifascista perché l’Italia potesse sedere un po’ meno umiliata al tavolo dei vincitori del macello mondiale – l’Italia borghese, capitalistica, che è stata madre del fascismo, e che oggi, un passo dopo l’altro, sta riabilitando il fascismo.
Quali che fossero le aspirazioni rivoluzionarie dei gruppi proletari più radicali intenzionati a prendersi una rivincita di classe contro gli strati sociali dominanti e sfruttatori, vale il giudizio storico espresso da Paul Ginsborg: “La Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi dubbio sulla sua essenziale subordinazione”. E se per caso questo appare il parere improprio di un osservatore esterno agli avvenimenti, sentiamo allora quello di Secchia, che alcuni compagni continuano a considerare tutt’ora, senza alcuna seria pezza d’appoggio, la frazione rivoluzionaria della direzione del PCI:
“L’insurrezione fu unitaria e nazionale per gli obiettivi che essa si poneva (…). Con l’insurrezione i patrioti si proponevano di assicurare all’Italia una condizione di forza al tavolo della pace (…). L’insurrezione nazionale si poneva l’obiettivo del socialismo? No, l’insurrezione, come la Resistenza, non fu lotta per la rivoluzione socialista, ma lotta per la conquista delle libertà democratiche“. Libertà democratiche che erano andate perdute vent’anni prima, questo Secchia l’ha provvidenzialmente scordato, proprio per la connivenza col fascismo di quelle forze democratiche e “amanti della libertà” con cui il suo PCI ha trescato dalla “svolta di Salerno” (ed anche prima) fino alla sua auto-dissoluzione. E, aggiunge categorico, non c’era alcuna velleità di procedere oltre, alcuna “prospettiva greca”: “Nessun [nota bene: nessun] dirigente politico o militare responsabile dell’antifascismo militante avanzò mai neppure l’ipotesi di tentare un movimento insurrezionale contro le truppe alleate o di spezzare le barriere che le forze occupanti ponevano all’avanzata della democrazia, con dei colpi di forza”. A questa dirigenza bastava infatti il “grande obiettivo” del “vero Risorgimento d’Italia” veramente democratico, che – fatto molto curioso – avveniva a braccetto con le nuove forze occupanti (le stesse rimaste tali 80 anni dopo!!!). Forze enormemente più potenti di quelle da cui ci si era liberati, e fermamente intenzionate fin dal primo momento a porre barriere all’instaurazione della stessa democrazia borghese. Barriere che – manco a dirsi – vennero erette proprio sul versante delle libertà democratiche “per gli operai, per i contadini, per i lavoratori, per le classi oppresse”… per riconquistare le quali ci si era alleati con loro.
C’è qui una seconda questione-chiave che non può essere aggirata: la seconda guerra mondiale fu qualcosa di diverso da una guerra per la spartizione del mercato mondiale? O dobbiamo prendere sul serio i rivestimenti ideologici di quello scontro? Non è forse di un’evidenza accecante che la super-potenza vincitrice effettiva della seconda guerra mondiale è stata la più spietata forza di oppressione dell’intera storia del capitalismo? Rispetto a questa super-potenza in ascesa, la Resistenza italiana nel suo insieme si schierò su una posizione antagonistica, oppure si collocò – escluse delle minime punte estreme – in una posizione di collaborazione dettata dagli interessi della nazione–Italia?
Perciò quando Mattarella & Co. ripropongono l’unità nazionale “come” ci fu nella Resistenza, nella loro invocazione c’è un nocciolo non piccolo di verità storica, perché realmente la Resistenza fu un moto nazional-popolare per la democrazia – la classe operaia vi fu presente con una sua corposa ala militante, ma in nessun modo autonoma dai suoi nemici di classe. La Resistenza non è stata una rivoluzione proletaria mancata perché della rivoluzione socialista mancavano i presupposti, sia in Italia che a scala internazionale, dopo vent’anni di terribile disorganizzazione del movimento di classe e di sconfitte sanguinose proprio nei paesi europei (Germania, Italia, Ungheria, Austria, Spagna) in cui il movimento proletario era stato più forte. E mancavano anche perché la guerra non si era conclusa con la rovina comune dei due blocchi imperialistici contendenti, ma con la vittoria schiacciante del più potente di essi, in grado di mettere in campo una massa imponente di anticipi di capitale per la ricostruzione dell’Europa distrutta, divisa, in ginocchio. Sicché non è un caso se tuttora, a distanza di poco meno di un secolo, il vincitore n. 1 della guerra, gli Stati Uniti, creda (sbagliandosi, questa volta) di poter fare il bello e il cattivo tempo ai quattro angoli del pianeta. A cominciare proprio dall’Italia, costellata di 120 basi NATO dichiarate, oltre a 20 basi militari Usa totalmente segrete ed ad un numero variabile (al momento una sessantina) di insediamenti militari o semplicemente residenziali con la presenza di militari USA.
Neppure ha senso parlare di rivoluzione tradita perché al seguito di divieti, moderazioni, compromessi a perdere, cedimenti, etc. derivanti dalla prospettiva di una “democrazia progressiva” affermata dalla direzione togliattiana del PCI, che combinava disarmo materiale e ideologico dei gruppi proletari più radicali, questi gruppi non furono in grado di opporre un’alternativa, e si lasciarono piuttosto rapidamente disperdere – si trattasse della CGIL rossa di Napoli, di Bandiera rossa a Roma, delle formazioni partigiane ribelli dell’astigiano, del biellese, di Verbania, del casalese, etc.
Nel ricordare e rivendicare quelle battaglie di nostri compagni di classe, che solo dei cialtroni possono cercare di ridicolizzare perché riguardarono appena poche decine di migliaia di proletari, non possiamo, però, mettere tra parentesi il dato di fatto della sconfitta. Per le classi sfruttate e oppresse le sconfitte sono la norma. Quindi, niente di strano, purché ci si sforzi di imparare da esse per non ripetere gli errori che le hanno agevolate. Il più esiziale degli errori fu, nel 1943-’45, sovrapporre nazione e classe, illudersi che ciò che era positivo per la nazione, prima o poi lo sarebbe stato anche per la classe; illudersi, credendo alla vaga meta della “democrazia progressiva”, un qualcosa di “impenetrabile come il volto della sfinge”, di poter conquistare la propria liberazione attraverso una lunga marcia nelle istituzioni del capitale.
Ma – ci ripetiamo a scanso di equivoci – non possiamo trarre ispirazione da quella battaglia per una ragione ancora più determinante: la grande diversità di congiunture storiche.
Con la seconda guerra mondiale il sistema capitalistico chiudeva i suoi trent’anni più tempestosi e si avviava sotto la guida dei finti liberatori a stelle e strisce ai “trenta gloriosi” anni di sviluppo capitalistico con epicentro proprio in Europa occidentale; un periodo in cui venne a spegnersi la prospettiva rivoluzionaria che nell’immediato secondo dopoguerra ancora sopravviveva, sia pur appannata e confusa, nei nuclei più combattivi di proletari italiani, greci, jugoslavi che guardavano con grandi aspettative sia al ruolo della Russia di Stalin, sia al moto rivoluzionario anti-coloniale.
Con l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin si è spalancata la porta ad un’era di catastrofi capitalistiche di ogni tipo annunciata già dagli attentati dell’11 settembre e dalla grande recessione del 2008. Il super-imperialismo trionfatore del 1945 (trionfo vero) e poi del 1989 (trionfo in parte ingannevole) non ha più l’egemonia sul mondo e neppure, fino in fondo, sui suoi stessi fidi alleati di un tempo; anzi è percorso nel suo stesso territorio da contrasti sociali, razziali, politici e perfino territoriali laceranti. La fine dell’ordine internazionale a dominanza yankee, con l’instabilità globale e le violentissime tensioni inter-capitalistiche che comporta, riapre – nel caos e nel rischio tangibile di un “orrore senza fine” – il tempo della rivoluzione sociale anti-capitalistica. Se anche la banca centrale di Israele inizia a sostituire, nelle proprie riserve, dollari con yuan o renminbi… ci siamo capiti?
Con questa situazione nuova dobbiamo fare i conti, la testa rivolta in avanti, memori delle battaglie del passato ma senza essere dominati dagli amarcord di battaglie date e perdute, idealizzandole come modelli.
3. I pacifisti
E veniamo al terzo aspetto delle manifestazioni del 24 (Assisi) e 25 aprile. Lasciamo perdere la giostra dei numeri, con la cattiva abitudine di tutti gli organizzatori di doparli, e veniamo alla ciccia. Una volta detto che i numeri sono stati in genere (esclusa la piazza di Milano) abbastanza modesti specie in rapporto alla gravità del momento, la cosa più interessante da cogliere è che comunque in esse la mobilitazione bellicista delle élites del potere non ha, finora, sfondato. E questo si registra pure in un’area della società enormemente più ampia delle poche decine di migliaia dei manifestanti del 24-25 aprile: i sondaggi sugli orientamenti della popolazione in materia di invio di quante più armi è possibile al governo Zelenski danno risultati che non sono soddisfacenti per la banda Draghi.
Certo, ad oggi il punto di riferimento del “no alla corsa alle armi”, “la guerra è una follìa”, “pace, non guerra”, è il papa con il suo continuo appello rivolto agli stessi protagonisti della corsa alle armi e dei piani di guerra infinita affinché si convertano alla sua buona novella. Ma, come s’è visto, perfino una simile invocazione, perfino l’accostare in una processione le mani di una donna russa e di una donna ucraina, infastidisce i centri di potere che, attraverso spudorate falsificazioni e un vero e proprio bombardamento di informazioni/disinformazioni, eccitano gli animi ad uno scontro di civiltà, una guerra esistenziale per la vita e per la morte contro gli Unni guidati dal “folle, criminale, dittatore” orientale.
Sennonché, come le recenti elezioni francesi confermano con il loro tasso record di astensioni e un primo movimento organizzato capace di dire “non vogliamo né l’uno né l’altro” dei due possibili rappresentanti del capitale, il fossato tra le élites e la massa della popolazione comune si va approfondendo, in particolare per le nuove generazioni di precari. Qui in Italia non disponiamo di indagini sufficientemente serie per capire dove si annidano le resistenze maggiori al bellicismo, ma abbiamo almeno tre indicatori utili: lo schieramento dell’associazionismo cattolico e laico (Emergency e simili); le oscillazioni verbali di Landini che, sia pure senza dargli consequenzialità, afferma: “non abbiamo certo bisogno di disperdere altri soldi in armi, ma di investire in salute, ambiente e lavoro”; la sortita di Grillo con la sua estemporanea proposta di convertire l’Italia in una sorta di Costarica mediterranea. Indicatori che provengono da ambiti con molti addentellati nel mondo del lavoro salariato e negli strati sociali intermedi.
In termini di composizione sociale le piazze pacifiste hanno visto un mix di strati proletari o proletarizzati e di giovani appartenenti alle mezze classi, forse con una prevalenza, almeno nell’attivismo, di questa seconda componente. Chi conosce la storia del movimento contro la guerra del Vietnam negli Stati Uniti di fine anni ‘60, sa che era questa l’anima sociale e politica di una protesta che riuscì a minare il fronte interno, ricongiungendosi in qualche modo al movimento dei neri per i diritti civili, mentre il sindacato degli edili (a New York) riteneva suo compito fare squadrette (o squadracce) che andassero a menare gli studenti disfattisti. Nessuna sorpresa, quindi, nel non vedere nelle piazze, oggi, contingenti operai, del resto semi-assenti da anni anche dalle lotte rivendicative fatte con determinazione, con l’eccezione della logistica (un’eccezione che non può essere a tempo indeterminato). Quel che ci pare di cogliere, però, negli ambienti operai e proletari è il timore, la preoccupazione che ci stiamo avvicinando a tempi durissimi, e che la guerra in Ucraina, e la guerra in generale, non sia la soluzione di nulla. Anzi. Preoccupazione e timore che, se non spingono alla lotta, agiscono al momento da freni all’arruolamento impulsato dal governo Draghi, con gli applausi di rito del fantasma-parlamento. Per intanto, i proletari stanno toccando con mano l’improvvisa impennata dei prezzi di beni irrinunciabili, e non può rassicurarli la prospettiva di un’“economia di guerra” se già in molti arrancano, in tempo di pace, ai limiti della povertà (la povertà di chi ha un lavoro, non dei disoccupati cronici!).
L’agitazione “pacifista” a ore alterne della direzione della Lega fornisce un altro segno delle contraddizioni in atto, questa volta inter-borghesi: aree importanti dell’industria manifatturiera dipendenti dall’export verso Russia e Cina scalpitano, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi. Anche la massa dei bottegai e dei titolari di attività legate al turismo inclina a vedere nero, e a mugugnare: per i grandi gruppi e le grandi banche la guerra è un affare colossale, mentre per noi piccoli… Queste resistenze cominciano a trovare qualche spazio perfino sul più fanatico dei bollettini del Pentagono in lingua italiana, la Repubblica, ed è quanto dire.
No, il resto del 2022 non sarà una passeggiata tra fiori e rose. E ora che una nuova, imprevista caduta della produzione è cominciata, l’allarme nel mondo operaio e nella congerie degli strati intermedi è destinato a salire e, forse presto, a suonare forte, fortissimo. E’ esattamente su questa contraddizione aperta che bisognerà fare leva nei prossimi tempi, a cominciare dal 1° maggio e dalla preparazione dello sciopero del 20 maggio. Ma guardandosi bene dal ridurre il tutto al “no alle spese militari, sì alle spese sociali”, sacrosanto come punto di partenza, ma insufficientissimo. Perché la posta in gioco è, come non mai, globale, storica.
Il capitalismo si è infilato in una dinamica di crisi a catena la cui esplosione sempre più ravvicinata sta sfuggendo di mano agli apprendisti stregoni che “guidano” le sorti del mondo, comandati dal supremo dittatore d’Occidente e d’Oriente, il dio profitto. E, date le leggi del movimento del capitale che i governi non sono in grado di modificare, l’intera umanità sta scivolando progressivamente in una spirale di guerre che dovrebbero ridisegnare, attraverso una catastrofe di inimmaginabili proporzioni, un nuovo ordine schiavistico. Di questo si tratta, e di niente di meno. E noi nutriamo l’incrollabile fiducia che, messa di spalle al muro senza altre alternative che “il combattimento o la morte”, l’umanità lavoratrice di tutte le razze e le nazionalità saprà insorgere e aprirsi la strada, attraverso una guerra senza quartiere ai capitalisti, verso quella completa liberazione da ogni forma di oppressione e di sfruttamento tanto a lungo sognata.