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[INTERNAZIONALISMO] L’esecutivo Meloni: governo dei padroni (e dei padroncini), governo della guerra

Riceviamo e pubblichiamo dai compagni e dalle compagne della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria questo contributo, già disponibile sul sito Il Pungolo Rosso (vedi qui):

L’esecutivo Meloni: governo dei padroni (e dei padroncini), governo della guerra

– TIR

La nascita del governo Meloni è stata salutata in una certa destra, ma anche, certo con minore enfasi, in settori proletari e popolari, come l’inizio della fine del dominio dei banchieri e dei ricchi, ben rappresentati dal super-banchiere Draghi. In molti si sono illusi che la (ex) “popolana della Garbatella” cambiasse la rotta, in qualche modo, a favore del “popolo” – dopotutto era stata la sola ad “opporsi” al governo di unità nazionale voluto da Mattarella. Noi della TIR, invece, l’abbiamo salutata subito con un “governo Meloni, governo dei padroni”, come una burattina mossa dai grandi poteri capitalistici interni e internazionali. La sua prima legge di bilancio conferma in pieno il nostro giudizio.

Infatti la finanziaria per il 2023 è una fotocopia delle misure prese dal governo Draghi, perfino con ulteriori regali alla grande, media e piccola borghesia accumulatrice (aumento crediti fiscali per l’energia e allargamento della flat tax), e con una vera e propria stangata sui disoccupati più poveri: dopo agosto, niente più reddito di cittadinanza. Questa è la “giustizia sociale” formato Meloni.

Per il resto la manovra Meloni-Giorgetti è “prudente” perché limita il deficit, attenta al giudizio dei “mercati”, ossia della grande finanza nazionale e internazionale che minaccia di alzare lo “spread”, e quindi il costo del debito, e della UE, da cui dipendono i fondi miliardari del PNRR. La Meloni, che si era espressa contro la tassa sui superprofitti energetici (che sono anche superprofitti di guerra), si è adeguata al 33% deciso dalla UE e chiesto dalla stessa Confindustria per “perequare” tra loro le imprese avvantaggiate e quelle colpite dalla guerra.

La comunicazione pubblica del governo e dei mass media ha messo la sordina all’aumento delle spese militari (quelle per armi sono camuffate da “investimenti”), il cui aumento, già deciso da Draghi, sarà accelerato dal ministro della Difesa Crosetto, lobbista dell’industria bellica. Ed invece sta a noi e ai veri anti-capitalisti denunciare incessantemente il nuovo esecutivo come il governo della guerra in Ucraina, e ben oltre l’Ucraina in Medio Oriente, nell’Africa nera, nei Balcani, in Palestina, fino a Taiwan.

Salvini, che aveva cercato invano voti promettendo l’elargizione di 50 miliardi a debito, si è ritirato precipitosamente sulla ridotta del ponte sullo Stretto – lui, l’uomo tutto “legge-e-ordine” contro gli immigranti e gli scioperanti, fa il miserabile galoppino degli interessi mafiosi e della grande industria delle costruzioni in perenni affari con la malavita organizzata. Finita la sbornia del quantative easing quando la BCE garantiva l’acquisto del debito italiano, il bilancio dello stato non è più in grado iniettare denaro (inflattivo) nell’economia. E il 2023 si prospetta anno di recessione e crisi. Crisi sulle spalle soprattutto dei lavoratori, con meno salari e meno consumi operai, se i lavoratori non sapranno lottare per difendere le proprie condizioni – a garantire i profitti sempre e comunque ci penseranno imprese e governo.

E’ una chiarissima dimostrazione del fatto che il cambio di colore dei governi, centro-sinistra, tecnici, arcobaleno, centro-destra lascia immutata gran parte della loro attività, fortemente condizionata dal quadro internazionale e asservita al grande capitale. Ed è un’ennesima smentita per quanti – anche nella sinistra “estrema” – si sono indaffarati a puntare ancora una volta le loro carte sulle elezioni. Era semplicistico il nostro slogan: “Altro che voto! Lotta e organizzazione di classe”? Al contrario, era adeguato alla situazione sociale e politica che vive la classe lavoratrice.

Quanto alla misura più odiosa di questo governo che ne dà più di ogni altra il segno politico, l’abolizione del “reddito di cittadinanza” (RdC) per le persone astrattamente occupabili, la sua rilevanza non è tanto nell’importo che viene sottratto agli strati sociali più poveri (circa 2,5 miliardi su base annua), ma nella volontà di lasciare tra 440 e 660 mila lavoratori poveri “occupabili” tra i 19 e i 60 anni e le loro famiglie senza sostentamento, per costringerli ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione: infatti già al primo rifiuto di un’offerta “congrua” (cos’è un’offerta congrua: due mesi di lavoro a 100 o 500 km di distanza da casa, a 4-5 euro l’ora e orario ‘flessibile’?) perderanno anche quei pochi spiccioli del “reddito”. Un modo per dare in pasto centinaia di migliaia di proletari, che non hanno diritto alla NASPI, alla moltitudine di sfruttatori senza scrupoli da cui è composto il mondo dei padroncini(degni emuli dei grandi capitalisti): o accetti un salario di fame per un lavoro indegno, o muori di fame.

Nella stessa logica dello smantellamento del RDC va la reintroduzione dei voucher:lavoretti a giornata, senza contratto di assunzione, per l’agricoltura, la ristorazione, colf e badanti, che erano stati aboliti 5 anni fa. La precarietà è spinta al massimo. Raggiunto il limite di 10.000 euro, sotto un altro. Per chi ha il reddito di cittadinanza, il limite è di 3.000 euro…

Queste vili decisioni da schiavisti vanno in parallelo con i continui attacchi ai salvataggi di migranti nel mar Mediterraneo, funzionali a tenerne una quota senza permesso di soggiorno, quindi sfruttabili a piacimento dai profittatori di cui sopra. A conferma – come non ci stanchiamo di ripetere noi della TIR – che la guerra alla guerra agli emigranti e agli immigrati condotta sistematicamente dallo stato italiano e dalla UE è un compito fondamentale di quanti si dicono e si vorrebbero antagonisti al capitalismo, un tema fondamentale della rinascita di un nuovo movimento proletario.

E’ del tutto evidente, poi, che le polemiche con la Francia delle ultime settimane sui salvataggi in mare non hanno nulla a che vedere con l’umanitarismo, ma fanno parte di un cinico braccio di ferro tra imperialismo italiano e imperialismo francese per le zone di influenza in Africa, a partire dalla Libia e nel Sahel, in competizione/alleanza con le altre potenze che stanno alimentando le guerre nel continente africano, incluse GB, USA, Germania, Russia, Cina, Turchia, Israele e petrolmonarchie. Il “sovranismo”, con qualunque salsa condito, è sempre e solo affermazione degli interessi di rapina dei capitalisti made in Italy, e va combattuto frontalmente, e mai coperto con i tanti imbarazzati, e complici, silenzi che tuttora vediamo perdurare anche in quanti si vogliono internazionalisti.

In molti si sono illusi, perfino qualche sciagurato sinistro, che il governo Meloni si distanziasse dall’iper-atlantismo filo-americano del governo Draghi. Ed invece il nuovo governo – nonostante i suoi contrasti interni – si colloca anche più saldamente dei precedenti sulla scia amerikana. Con una sua specificità: strizza l’occhio ai paesi dell’Est europeo che si prestano al ruolo di cavalli di Troia degli Stati Uniti contro il precario asse franco-tedesco e i tentativi di centralizzare politica estera e difesa a livello europeo. In cambio, l’Italia si aspetta, come per il passato, che gli USA le garantiscano un ruolo internazionale che da sola non saprebbe conquistare.

Questo asse preferenziale con paesi come Polonia e Ungheria riguarda anche, e quanto!, l’attacco alle sia pur limitate conquiste delle donne lungo la scia dell’Internazionale nera transatlantica. Come è scritto ne “La posta in gioco. Riflessioni e proposte per un femminismo rivoluzionario”, questo attacco non viene da sette di fanatici, ma da stati e governi. E in Italia è partito negli ultimi anni con il governo del “progressista” Conte attraverso il famigerato disegno di legge Pillon e il non meno famigerato Convegno delle famiglie di Verona del 30 marzo 2019, non si è mai fermato con i governi successivi, ed è ora rilanciato alla grande dal nuovo esecutivo, il primo presieduto da una donna…

Infatti l’unica novità per così dire “sociale” della manovra, il mese in più di maternità all’80%, insieme al raddoppio dell’assegno unico per i pochi nuclei familiari che hanno tre figli o più, risponde proprio alla linea natalista dell’Internazionale nera (per fornire braccia e carne da cannone per gli anni a venire), avendo come altra faccia della medaglia, in mancanza di asili gratuiti, la riduzione della donna al ruolo riproduttivo, subordinata al capofamiglia. L’impegno delle destre al governo a rafforzare il patriarcalismo, esplicitato anche in una serie di dichiarazioni e proposte di legge contro la 194, è un incoraggiamento alla violenza privata nei confronti delle donne che non intendono rinunciare all’autodeterminazione, mentre i tagli ai servizi e le crescenti difficoltà di trovare lavoro renderanno ancora più difficili le vite della grande maggioranza delle donne, che sono la parte più povera della popolazione.

Guardiamo ora un po’ più in dettaglio il contenuto di classe della legge di bilancio 2023.

I regali alla borghesia sono evidenti e sono grossi: a hotel, ristoranti e bar viene aumentato dal 30 al 35% il rimborso fiscale della bolletta energetica; per le imprese “energivore” il rimborso sale dal 40 al 45% (ossia lo stato – le cui entrate vengono all’80% dalle tasse imposte ai salariati – gli paga quasi metà dell’energia), per un totale che costituisce il grosso dei 21 miliardi per le bollette. Mentre alle famiglie sotto i 15.000 euro di ISEE vanno le briciole, e alle altre niente.

Con la flat tax fino a 85.000 euro di fatturato per le partite IVA (finora il massimo era fissato a 65.000 euro) si tagliano anche 15.000 euro di tasse a commercianti e studi professionali ricchi; a questo si aggiunge la “flat tax incrementale” che abbatte al 15% le tasse anche per chi vuole godere delle deduzioni.

Anche gli sgravi contributivi di 6 mila euro per chi assume a tempo indeterminato sono regali aggiuntivi a padroni e padroncini, cui è stata data comunque la più piena libertà di assumere a tempo determinato.

A fronte di questi sostanziosi regali, ai lavoratori dipendenti va un pugno di mosche: nient’altro che il 2% in meno di contributi già varato da Draghi, con l’aggiunta di un 1% per redditi lordi sotto i 20.000 euro (di chi, cioè, ha un salario di circa 1.200 netti per 14 mensilità). Uno sgravio aggiuntivo di 10 euro al mese, o al massimo 30 euro al mese, quando dalla busta paga sono spariti i 100 euro mensili ‘ex Renzi’: il gioco delle tre carte e addirittura una amara presa in giro per i non pochi salariati che ci andranno a perdere.

Inoltre: cosa significa il taglio dei contributi? Che all’INPS arrivano meno risorse. I casi sono due: o lo Stato rimborsa all’INPS l’ammanco, e allora da dove prende i soldi, se riduce le tasse ai borghesi? Sempre dai lavoratori (operai/e, proletari/e, salariati/e), ovviamente: ad esempio con l’aumento dell’IVA sui prodotti di largo consumo che sono aumentati di prezzo… l’inflazione è fatta anche di tasse; e con l’aumento delle tasse sulla benzina. Oppure saranno tagliate le pensioni o le altre erogazioni dell’INPS. Non è certo con il taglio del “cuneo contributivo” che i salari possono recuperare il potere d’acquisto perso per l’inflazione. È soltanto un espediente per tenere fermo il costo del lavoro per le imprese, cioè diminuirlo rispetto a tutti gli altri costi. Anzi, per i lavoratori senza carichi familiari il netto in busta paga addirittura è diminuito, in aggiunta alla perdita di potere d’acquisto per l’inflazione al 12%.

L’altra “concessione” ai lavoratori salariati è lo sgravio delle tasse al 5% sui premi di risultato fino a 3.000 euro: questa “concessione”, oltre ad essere a totale discrezionalità e arbitrio delle imprese, anche di quelle che fanno profitti astronomici, è un invito a spostare parte del salario dal Contratto nazionale, valido per tutti i lavoratori, ai contratti aziendali, validi solo per le aziende più floride o dove i lavoratori hanno la forza di ottenerli. Ma è soprattutto un incitamento ad incrementare al massimo la produttività del lavoro e gli orari di lavoro, e a inasprire al massimo la competizione tra i lavoratori, a scapito di ogni possibilità di nuove assunzioni. È un modo, insomma, per approfondire la divisione tra i lavoratori a seconda che siano impiegati in aziende che tirano o in aziende meno dinamiche. Una divisione particolarmente grave in questa fase di forte inflazione, che richiede una risposta generalizzata e intercategoriale di tutti i lavoratori perché TUTTI sono colpiti allo stesso modo dall’inflazione che riduce il potere d’acquisto dei salari. Invece il fatto che un aumento del minimo salariale del CCNL è tassato al 25% (o al 35% sopra i 28.000 euro) mentre un aumento del premio di risultato è tassato solo al 5% rende più facile (e per le aziende meno costoso) ottenere un qualche recupero del salario netto a livello aziendale, lasciando la grande maggioranza dei lavoratori senza aumenti, cioè con un salario che vale sempre meno e non basta più ad arrivare a fine mese.

Diverse aziende, soprattutto multinazionali con posizioni monopolistiche (come ad es. Luxottica o ENI) elargiscono premi di risultato senza scioperi allo scopo di legare in modo ancora più stretto i dipendenti a una logica aziendale e corporativa. Anche negli ambiti in cui vi sono state lotte per gli aumenti, come nella logistica, dove il SI Cobas ha ottenuto significativi premi aziendali (fino a 2.000 euro) per i maggiori gruppi multinazionali, come GLS, SDA, BRT, DHL, la grande maggioranza dei lavoratori del settore resta esclusa. La responsabilità di questo stato di cose è delle maggiori confederazioni sindacali, CGIL, CISL, e UIL, che hanno praticamente il monopolio della contrattazione nazionale, e si guardano bene dall’aprire una vertenza generale per aumenti salariali che permettano a tutti i lavoratori di recuperare quanto perso per l’inflazione.

Fateci qui ricordare che tre anni fa, come TIR, sottolineammo che era necessario che le forze coerentemente di classe e anti-capitaliste (non parliamo, evidentemente, della sinistra istituzionale e para-istituzionale) assumessero la questione fiscale come una rilevante questione politica delle forze proletarie dal momento che da mezzo secolo – a livello ancora una volta internazionale – la classe capitalistica sta manovrando furiosamente e abilmente sul piano fiscale, sia per scaricare sulla classe lavoratrice i crescenti costi della propria riproduzione, sia per segmentare ulteriormente il proletariato, e quindi indebolirlo. Bisogna apprestare una analisi di questo fenomeno ormai strutturale, e formulare un programma rivendicativo da agitare contro l’asse padronato-governo – questa la nostra tesi. Proposte allora non comprese da compagni seri ma legati a schemi astratti (oltre che da gente senza né arte né parte), e che vanno invece rilanciate con la loro chiara impronta anti-capitalista, e l’altrettanto chiara valenza di riunificazione di classe – foss’anche solo sul terreno della propaganda, che è comunque un terreno dell’azione politica. Qui le riproponiamo nella loro sintesi grafica.

Per quanto riguarda le pensioni, infine, altro cavallo di battaglia demagogico della destra, la quota 100 è diventata quota 103, con riduzione della pensione, e a fronte della rivalutazione del minimo, a livelli sempre infimi (570 euro), quelle medie recupereranno l’aumento dei prezzi, in base a quella “scala mobile” che è stata invece abolita per i salari.

In diversi paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania, Grecia) alcuni sindacati, sotto la pressione dello scontento dei proletari loro iscritti, stanno organizzando scioperi per la difesa del salario contro l’inflazione (in Germania i metalmeccanici hanno ottenuto 3 mila euro e aumenti dell’8,5% in due anni), benché quasi sempre le direzioni sindacali – nonostante la buona riuscita degli scioperi – nulla fanno per arrivare ad una risposta unitaria di tutta la classe lavoratrice, e tanto meno per quell’unità internazionale dei proletari contro i propri governi, l’UE, la finanza internazionale e i signori della guerra della NATO che ha un’importanza vitale. E su cui tutti, noi inclusi evidentemente, siamo in ritardo. Un ritardo che è urgente recuperare anche nel collegamento con i movimenti di lotta degli altri paesi imperialisti (anzitutto quelli degli Stati Uniti) o meno (anzitutto, in questo momento, in Iran, dove accanto alle proteste delle donne sta crescendo la protesta operaia).

In Italia – per quanto possa sembrare incredibile – CGIL, CISL e UIL sono schierate di fatto con governo, Confindustria e Banca d’Italia contro la richiesta di aumento generalizzato dei salari, complici del fatto che l’inflazione riduca i salari per lasciare spazio ai profitti. Questo rifiuto, in combinazione con la detassazione dei premi di risultato, porta al “si salvi chi può”, alla frantumazione ulteriore delle condizioni materiali della classe lavoratrice. Rilevare questo non significa, per noi, assolvere la passività della massa dei lavoratori. Al contrario: ragionare sulle cause di fondo di questa passività cogliendo, al tempo stesso, il malessere e lo scontento che crescono da anni in questa massa, ci porta a proiettarci ancora di più verso di essa, insieme a tutti i compagni che hanno dato vita al convegno di Roma del 16 ottobre contro la guerra in Ucraina. La lotta contro le guerre del capitale in Ucraina e in tutto il mondo, e la lotta contro la guerra di classe intensificata dei padroni e del governo Meloni sono due facce della stessa medaglia.

Ecco perché lo SCIOPERO GENERALE del 2 DICEMBRE, indetto da diversi sindacati di base, è la giusta decisione, un primo passo per rispondere alla politica di governo, padroni e dei sindacati concertativi, per favorire il risveglio della conflittualità politica e sindacale contro la guerra in Ucraina e contro tutte le guerre del capitale, e per la difesa intransigente dei salari dall’inflazione, il che significa non solo forti aumenti salariali generalizzati, ma anche il ripristino della scala mobile, per cominciare a risalire la china del peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita che va avanti da decenni, e si esprime anche in un devastante allungamento degli orari.

Gli obiettivi dello sciopero e della manifestazione del 3 dicembre a Roma, fortemente voluta dal SI Cobas e dalla TIR, riguardano l’insieme della classe lavoratrice e dei giovani senza privilegi, e nel tempo che ci rimane va fatto ogni sforzo per coinvolgere quanti più lavoratori e giovani possibile non organizzati o iscritti alle Confederazioni concertative che siano.

25 ottobre,

Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria