Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Questo articolo (che ci è stato segnalato) presenta un’utile analisi dell’impatto della guerra sull’economia israeliana, e si integra bene con l’articolo di I. Pappé che trovate qui accanto. Anche qui non è trascurato il “fattore soggettivo”, cioè l’incidenza della resistenza palestinese sull’andamento non solo della politica, ma anche dell’economia di Israele – fattore che non sta certo in opposizione al fattore oggettivo primario, la crisi complessiva del processo dell’accumulazione di valore.
In parallelo a quel che sta avvenendo con gli Stati Uniti, ne deriviamo che dobbiamo aspettarci un inasprimento del bellicismo di Israele e dei suoi padrini statunitensi ed europei come ultima risorsa per cercare di sfuggire al proprio declino da lungo tempo cominciato, e – dialetticamente – l’ulteriore indebolimento, fino alla sconfitta storica, dell’apparato coloniale sionista, a condizione, s’intende, che la resistenza del popolo palestinese e la solidarietà attiva degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo alla loro causa proseguano e si intensifichino.
Redazione Il Pungolo Rosso
Il pesante tributo della guerra di Gaza all’economia israeliana
Israele potrebbe non riprendersi più dal crollo economico successivo al 7 ottobre.
La resistenza palestinese è riuscita non solo a distruggere la percezione della sicurezza interna di Israele, ma anche ad aumentare significativamente il rischio per gli investitori stranieri.
– Kit Klarenberg
new.thecradle.co
Il 6 novembre, il Financial Times ha pubblicato una straordinaria inchiesta sul devastante bilancio economico della guerra di Israele contro Gaza, il cui impatto si è fatto sentire sulle finanze personali, sui mercati del lavoro, sulle imprese, sulle industrie e sullo stesso governo israeliano.
Il FT riferisce che la guerra ha interrotto e devastato “migliaia” di aziende, molte delle quali sono sull’orlo del collasso, mentre interi settori sono precipitati in una crisi senza precedenti.
I dati citati dall’Ufficio centrale di statistica israeliano rivelano una realtà desolante: un’azienda su tre ha chiuso o sta operando al 20% della capacità da quando, il 7 ottobre, era iniziata l‘Operazione Al-Aqsa Flood, che ha assestato un duro colpo alla fiducia nazionale israeliana.
Più della metà delle imprese ha subito perdite di fatturato superiori al 50%. Le regioni meridionali, più vicine a Gaza, sono le più colpite, con due terzi delle aziende chiuse o che funzionano “al minimo”.
Ad aggravare la crisi, il Ministero del Lavoro israeliano riferisce che 764.000 cittadini, quasi un quinto della forza lavoro israeliana, sono senza lavoro a causa delle evacuazioni, della chiusura delle scuole, che costringono a rimanere a casa ad occuparsi dei figli, o della chiamata al servizio militare nella riserva.
Il prezzo pagato dal commercio e dal turismo di Tel Aviv
Lunedì, Bloomberg ha fornito le cifre dell’impatto economico della belligeranza militare di Tel Aviv: fino ad oggi, la guerra di Gaza è costata all’economia israeliana quasi 8 miliardi di dollari, con ulteriori 260 milioni di dollari di perdite ogni giorno che passa.
Nonostante questa situazione disastrosa, il primo ministro Benjamin Netanyahu, che conta molto sul sostegno delle fazioni politiche di destra e ultra-sioniste, continua a stanziare “ingenti somme” per progetti ideologici e coloniali non essenziali, discostandosi dal tipico protocollo economico delle situazioni di guerra.
Netanyahu ha stanziato per i cinque partiti politici che compongono la sua coalizione di governo la cifra record di 14 miliardi di shekel (3,6 miliardi di dollari) in spese discrezionali, gran parte delle quali destinate alle scuole religiose e allo sviluppo degli insediamenti ebraici illegali nella Cisgiordania occupata.
Per colpa della guerra di Gaza, molti progetti edilizi israeliani si sono temporaneamente fermati perché si basavano principalmente sullo sfruttamento della manovalanza palestinese. Il FT riferisce che i Sionisti “non si sentono sicuri quando vedono lavoratori arabi che maneggiano attrezzi pesanti”, quindi “non vogliono che ci siano lavoratori palestinesi”. Questo disprezzo arriva nonostante molte aziende siano ridotte a chiedere donazioni per rimanere a galla.
Consideriamo Atlas Hotel, una catena di boutique hotel che ha dovuto accogliere nelle sue 16 strutture nello Stato dell’apartheid quelli che erano dovuti “sfollare” per colpa palestinesi che combattevano per la libertà. La disperazione ha costretto gli Atlas Hotel a chiedere un sostegno finanziario ai fornitori, alle filiali all’estero, ai clienti e persino allo stesso personale.
Un alto dirigente, interrogato dal FT, ha ammesso apertamente che, in mancanza di tali entrate, l’azienda dovrebbe chiudere. Dato che, dall’inizio della guerra, la spesa dei consumatori israeliani è crollata, lo stesso vale senza dubbio per molte aziende che per la sopravvivenza dipendono dalla spesa del pubblico.
Il turismo, potenziale ancora di salvezza economica, offre poca speranza a Tel Aviv. Secondo i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), i viaggi internazionali contribuiscono al PIL israeliano per appena il 2,8% e sostengono 230.000 posti di lavoro, poco più del 6% della forza lavoro totale.
Nonostante i continui sforzi di tutto il 2022 per rilanciare il turismo, il mese di ottobre ha visto un enorme calo del 76% rispetto all’anno precedente. L’Operazione Al-Aqsa Flood ha ulteriormente ridotto i viaggi, con i voli giornalieri da e per l’aeroporto Ben Gurion che sono crollati da 500 ad appena 100.
Nell’ottobre 2022, gli arrivi internazionali avevano superato le 370.000 unità. Senza una fine della guerra in vista e con i coloni sionisti che fuggono in massa, sembra improbabile che Tel Aviv torni presto ad essere una destinazione turistica popolare.
La guerra economica
La catastrofe in atto non sfugge agli economisti di Tel Aviv, 300 dei quali, il 1° novembre, hanno esortato Netanyahu e i suoi ministri delle Finanze a “tornare in sé”, a causa del “grave colpo inferto a Israele”.
Essi ritengono che il cataclisma “richieda un cambiamento fondamentale delle priorità nazionali e una massiccia riorganizzazione dei fondi per far fronte ai danni di guerra, agli aiuti alle vittime e alla riabilitazione dell’economia”. In risposta, il Primo Ministro ha coraggiosamente promesso di creare una “economia da tempo di guerra”:
“La mia guida è chiara: stiamo aprendo i rubinetti, stiamo pompando denaro a tutti coloro che ne hanno bisogno… Qualunque sia il prezzo economico che questa guerra ci impone, lo pagheremo senza esitazione… Batteremo il nemico nella guerra militare e vinceremo anche la guerra economica”.
Nonostante questa pomposa retorica, ci sono ampie indicazioni che lo Stato sionista nutre delle grosse e pericolose illusioni sia sulla sua sostenibilità economica che sulla propria capacità militare. I rapporti pubblicati dal “think tank” Start-Up Nation Policy Institute (SNPI) di Tel Aviv rivelano una prospettiva non certo rosea.
Appena due settimane dopo l’inizio dell’Operazione Al-Aqsa Flood, l’organizzazione ha pubblicato uno studio sui danni subiti dal settore tecnologico israeliano, un tempo fonte di orgoglio e gioia nazionale e indicatore della sua prosperità in generale. I dati sono drammatici.
Ancora nella fase iniziale dell’Operazione, l’SNPI, sulla base del suo sondaggio, aveva previsto una “crisi economica la cui entità è ancora sconosciuta”. In totale, l’80% delle aziende tecnologiche israeliane ha riportato danni derivanti dal peggioramento della “situazione della sicurezza” del Paese, mentre un quarto ha registrato “un duplice danno, sia per quanto riguarda le risorse umane sia per quanto riguarda l’ottenimento di capitali di investimento”.
Oltre il 40% delle aziende tecnologiche si è visto ritardare o annullare gli accordi di investimento e solo il 10% è riuscito ad avere incontri con gli investitori. Il rapporto conclude:
“L’incertezza e la conseguente decisione di molti investitori di ‘sedersi e stare a guardare’ a causa della situazione attuale colpisce un ecosistema che già faticava a raccogliere capitali, in parte a causa dell’instabilità politica alla vigilia della guerra, unita alla recessione economica mondiale”.
Un’altra ragione del fallimento del settore tecnologico israeliano, non menzionata da SNP – ma indagata da The Cradle in un articolo del 13 ottobre – è stata l’esposizione da parte di Al-Aqsa Flood delle vulnerabilità dei sistemi di sorveglianza elettronica e di guerra di Tel Aviv.
Il rapporto conclude dicendo che l’operazione della resistenza palestinese avrebbe “probabilmente portato ad un declino significativo del settore della cybersicurezza di Israele” e [il fatto che non fosse stata prevista] rappresenta un colpo grave e potenzialmente fatale per il marchio “Startup Nation“, che si basa molto sulla cybersicurezza. Gli eventi successivi hanno confermato questa previsione.
Brusche fluttuazioni
Il 2 novembre l’SNPI ha pubblicato un altro studio che analizza la resilienza economica storica di Israele alle crisi di sicurezza, facendo riferimento agli “eventi di combattimento significativi degli ultimi vent’anni”, in particolare l’operazione Protective Edge del 2014.
Pur ammettendo che i recenti eventi hanno “ovviamente” sollevato “grandi preoccupazioni tra gli investitori stranieri, i partner e i clienti” delle imprese israeliane, l’SNPI ha dipinto un quadro più ottimistico rispetto al passato, suggerendo che Tel Aviv aveva già “dimostrato in passato la sua capacità di superare crisi di questo tipo e… di emergerne più forte”.
Questo giudizio rialzista si basa sul fatto che l’assalto a Gaza del 2014 era costato appena lo 0,3% del PIL israeliano, ovvero circa 8 miliardi di shekel odierni. Inoltre, quello sforzo militare non aveva sconvolto in modo duraturo i mercati finanziari, né aveva causato “forti fluttuazioni” nella borsa di Tel Aviv nel breve o nel lungo periodo. L’SNPI ha concluso che lo stesso impatto, o una sua mancanza, può essere ipotizzato per l’odierna Operazione Swords of Iron contro Gaza.
Tuttavia, la portata senza precedenti dellOperazione Al-Aqsa Flood, che ha costretto alla mobilitazione di 360.000 soldati israeliani, oltre all’intensificarsi delle schermaglie militari sul fronte settentrionale con gli Hezbollah libanesi e alla duratura devastazione economica, mette in discussione l’applicabilità dello scenario di Protective Edge. Nel 2014 erano stati mobilitati appena 5.000 soldati per un’azione militare delle forze di occupazione israeliane che era durata appena 49 giorni.
Netanyahu, almeno retoricamente, dà l’impressione di voler eliminare Hamas e porre fine al dominio del movimento a Gaza, anche se finora questi obiettivi non sono stati neanche lontanamente sfiorati. Ci sono anche indicazioni inequivocabili che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno cercando un conflitto per procura prolungato e consequenziale non solo in Palestina, ma in tutta l’Asia occidentale. Questa empia trinità potrebbe essere sul punto di dover imparare una lezione dolorosa e straziante sui reali limiti odierni del loro potere.
L’Operazione Al-Aqsa Flood ha ottenuto successi sorprendenti, sfidando misure di sicurezza consolidate e segnalando il possibile inizio di un più ampio disfacimento del progetto sionista. I rischi per Israele non sono mai stati così alti. L’economia coloniale di Tel Aviv, che si basa sull’asservimento dei palestinesi, rischia di trovarsi di fronte ad un futuro precario, e potrebbe forse essere la prossima tessera del domino a cadere in questo scenario tutto in divenire.
Fonte: new.thecradle.co
Link: https://new.thecradle.co/articles/blowback-the-gaza-wars-massive-toll-on-israels-economy