Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
[nella foto: palestinesi prendono il controllo di un carro armato israeliano dopo aver attraversato la recinzione di confine con Israele da Khan Yunis nel sud della Striscia di Gaza il 7 ottobre 2023 – immagini Str/Aps]
Su segnalazione del compagno Paolo B. riprendiamo da Invicta Palestina questo articolo di Zubayr Alikhan. Esso critica in modo tagliente le interpretazioni dell’azione del 7 ottobre che – per un miscuglio di snobismo e di suprematismo occidentale – tendono ad escludere che gli “schiavi” palestinesi possano essere stati così “intelligenti” da concepire e attuare da soli un’azione del genere.
Alikhan prende di mira anche un altro ingrediente che tende a screditare il valore, la
portata – se preferite – della rivolta: il complottismo. Spesso, quando si tratta di sottili e argute analisi
politiche che riguardano guerre del capitale, caduta di un governo, colpi di stato o semplici
questioni di vaccini, questa logica interpretativa fa sorridere i liberal borghesi e suscita commenti compassionevoli anche ad opera di qualche “sinistro”; stavolta no. Stavolta, specie nelle prime settimane dopo il 7 ottobre, il coro che ha ventilato un cordiale accordo (addirittura storico) tra Hamas e Netanyahu ha avuto un incredibile trasversalismo, che ha origine nei fattori citati dall’autore, con l’aggiunta di un rifiuto ad accettare la cruda realtà dei fatti (e che fatti!: 75 anni di spietata dominazione coloniale, di cui 17 di assedio totale), e le conseguenze che se ne devono trarre.
Lo scritto di Zubayr Alikhan affronta una questione che qualcuno si affretterà a definire sovrastrutturale, credendo così scioccamente di sminuirla; ma il tratto di classe, l’impostazione colonialista e classista della cultura dominante è qui messa allo scoperto e ben descritta. Il dubbio sulle capacità degli “schiavi” di liberarsi con le sole proprie forze viene insinuato e usato per svalorizzare non solo la resistenza palestinese, ma quella dell’intero mondo delle classi proletarie mediorientali. Niente di cui meravigliarsi, quando la stessa parola Medio Oriente, ancora largamente in uso, è il termine con cui il colonialismo inglese designava il mondo: l’Europa era il vicino oriente e, a seguire, il medio e poi l’estremo oriente giapponese.
Anche le parole trasudano potere!
Inutile dire che, come redazione, non siamo mai obbligati a condividere tutto ciò che un testo ospitato sostiene. Non lo siamo neppure in questo caso, ma di sicuro ne apprezziamo l’acuminata critica di una mentalità coloniale presente anche nella cosiddetta “estrema sinistra”.
Redazione Il Pungolo Rosso
L’impensabile rivolta degli schiavi
Coloro che affermano che Israele era a conoscenza dei piani del 7 ottobre stanno riconfezionando un vecchio luogo comune coloniale secondo cui i nativi sono troppo docili, troppo sottomessi, troppo codardi e troppo inferiori per ribellarsi contro i loro oppressori.
di Zubayr Alikhan – 8 febbraio 2024 – fonte: english version
Il 7 ottobre 2023 i palestinesi hanno lanciato la più grande operazione decoloniale nella storia della Palestina. Hanno segato le loro catene, hanno demolito la gabbia e hanno fatto saltare le pareti di ferro. I palestinesi hanno preso il volo. Hanno accecato le telecamere, interrotto le comunicazioni e penetrato gli insediamenti. Hanno paralizzato una colonia di coloni nucleari e hanno messo in ginocchio l’impero. Hanno reciso il cordone ombelicale dell’inespugnabilità, della sicurezza e del dominio sacrosanto, vitale per tutti i progetti coloniali.
Immediatamente, scribi e politici imperiali, coloni e amministratori coloniali, conservatori e liberali – soprattutto i liberali – si sono messi al lavoro. Il loro compito era duplice: garantire che il mondo vedesse i nativi come orde selvagge, barbari, animali, la quintessenza del male – qui i liberali hanno dimenticato velocemente la loro correttezza politica e si sono affrettati a condannare – e contemporaneamente ristabilire il dominio.
Il primo ha preso d’assalto il mondo, ma per chiunque fosse sano di mente è sempre stato fallace e ora è stato instancabilmente e completamente sfatato. Il secondo, invece, ha permeato la mente di molti, anche di quelli potenzialmente ben intenzionati. Questo ripristino dell’impero si è manifestato in diversi modi: i palestinesi non avrebbero potuto evadere da soli, non sarebbero riusciti a penetrare la cupola di ferro, i sistemi di sicurezza israeliani sono troppo avanzati per essere superati o disarmati – Israele “ha lasciato che lo facessero”.
Senza perdere un colpo, un’operazione senza precedenti che ha mandato in frantumi il concetto di invincibilità imperiale è stata riformulata come uno strumento imperiale. Faceva parte di un piano generale più ampio per rafforzare ed espandere ulteriormente il dominio: i nativi erano pedine insensate a disposizione di un potere coloniale onnisciente e intellettualmente supremo. Da questo filone di pensiero – e in esso – sono emerse molte altre verità, mezze verità e bugie che lo evidenziano e ne consolidano la presa. Secondo alcuni, Israele in realtà aveva sostenuto e creato Hamas. Netanyahu aveva pianificato tutto questo per vincere le prossime elezioni, sostengono altri. E il mio preferito – soprattutto perché ora è stato arricchito dagli stenografi sionisti del New York Times – “Israele lo sapeva da sempre”.
Sicuramente, la prossima scoperta sarà che Israele sapeva del diluvio di Al-Aqsa prima degli stessi palestinesi, che lo ha inventato, lo ha presentato a Hamas e lo ha inculcato nelle menti dei palestinesi. Alla base di tutto ciò – e a costituire la ragion d’essere collettiva di queste teorie – c’è l’impensabilità della rivolta degli schiavi (o dei nativi).
L’impensabilità della rivolta degli schiavi è un concetto introdotto da Michel-Rolph Trouillot per spiegare le risposte, i silenzi e il silenzio dell’impero occidentale sulla rivoluzione haitiana. Mentre Trouillot la usa in relazione agli imperialisti del XVIII secolo, questa impensabilità si applica senza soluzione di continuità al presente: l’impero, le sue ideologie, il suo colonialismo, i suoi genocidi e le sue colonie non sono storie da studiare, ma realtà materiali e violenze vissute. Oggi.
Allo scoppio della rivoluzione haitiana, la reazione più comune in Francia, Inghilterra, Spagna e Stati Uniti fu l’incredulità. La notizia era falsa. I fatti – proprio come quelli dell’alluvione di Al-Aqsa – erano troppo improbabili. In ogni caso, i fatti dovevano essere falsi, perché i neri, come i palestinesi, erano bestie senza cervello, selvaggi costretti alla docilità, pigri, disorganizzati e inferiori: erano assolutamente incapaci di ideare un’operazione del genere, tanto meno di organizzarsi e realizzarla.
Anche se i ribelli avessero in qualche modo evocato gli spiriti e compiuto miracoli, la superiorità intellettuale, militare, economica e razziale dei bianchi assicurava che sarebbero stati rapidamente domati, incatenati e messi di nuovo al lavoro. Il problema, tuttavia, era proprio che l’Occidente stava reagendo – a fatto avvenuto – ed escogitando spiegazioni, mentre i neri e i palestinesi mettevano in atto l’impensabile, neutralizzavano attivamente le forze coloniali e rivendicavano le terre.
Lentamente e a malincuore, la realtà delle operazioni si fece strada. La notizia di spietate orde nere che massacravano i bianchi raggiunse l’Europa, e i sionisti proclamarono nuovamente gli “Orrori di San Domingo”. La notizia quindi dovette essere razionalizzata in un modo diverso: i fatti evidenti erano, sono, ancora impensabili. Pertanto, la rivoluzione fu “una sfortunata ripercussione degli errori di calcolo dei coltivatori”, l’alluvione di Al-Aqsa fu il risultato di “una cascata di passi falsi durata anni” di Israele, “non mirava a un cambiamento rivoluzionario”, non mirava alla decolonizzazione, “non è stata sostenuta dalla maggioranza della popolazione schiava”, è stato Hamas che ha agito da solo e i palestinesi non li hanno appoggiati, “è dovuto ad agitatori esterni”, ha istigato l’Iran, “è stata la… conseguenza di varie cospirazioni conniventi da parte di non schiavi”, ci sono state “fughe di notizie all’interno dell’establishment della sicurezza israeliano”. Con i neri e i palestinesi intellettualmente nulli, “ogni partito ha scelto il proprio nemico preferito come il cospiratore più probabile… [e] si è accusato a vicenda di essere la mente dietro la rivolta”. Ad Haiti furono gli inglesi, i realisti e i mulatti; in Palestina, l’Iran è stato la mente, e dietro di loro, Russia e Cina.
Qui, alcuni probabilmente si precipiteranno a scagliare insulti o ad accusarmi di ingenuità per aver trascurato i fatti lampanti (come se fossi io l’impero) della conoscenza sionista. Chiarirò. Niente di ciò che ho scritto è per dire che il regime sionista sicuramente non lo sapesse – anche se il mio istinto viscerale esita ancora a credere che lo sapesse – ma piuttosto che l’operazione era impensabile per loro, che il loro sapere/non sapere è irrilevante, e che lo svolgersi degli eventi e i loro esiti non sono nelle loro mani onnipotenti, ma in quelle dei palestinesi, dei proprietari della terra e della resistenza.
È interessante notare che, tra tutto il lavoro di tachigrafia imperiale presentato nell’indagine del Times sull’alluvione di Al-Aqsa, c’è una linea che è stata trascurata e sottovalutata soprattutto nello sforzo di bombardare i successi rivoluzionari del 7 ottobre nel regno dell’imperium, sotto assedio, o meglio, senza memoria.
Si può quindi dedurre che questa frase possieda una potenziale verità:
“[Israele manteneva la] convinzione fatalmente inaccurata che Hamas non avesse la capacità di attaccare e non avrebbe osato farlo… [una] convinzione così radicata nel governo israeliano… da ignorare le crescenti prove del contrario”.
Si noti la percezione dell’incapacità palestinese – e della docilità attraverso la paura – così come il riconoscimento che un’operazione del genere era così visceralmente impensabile che i sionisti, come gli europei del 1792, hanno sconfessato i loro stessi occhi. Tale è l’arroganza dell’impero, e qui sta la sua distruzione.
L’imperialismo si fonda sull’idea stessa, sulla centralità e supremazia dell’io su coloro che attendono la conquista e la civilizzazione. La primarietà dell’impero poggia sulla secondarietà dell’Altro. La superiorità imperiale si basa sull’inferiorità nativa. Eppure, paradossalmente, questa secondarietà e inferiorità sono indispensabili alla primarietà e superiorità dell’europeo e dell’impero. Eventi come la rivoluzione haitiana, l’attentato al Milk Bar e l’alluvione di Al-Aqsa, invertono, ribaltano o frantumano completamente queste gerarchie.
Quindi, per il nativo, questa violenza è una “forza purificatrice”, lo libera “dal suo complesso di inferiorità, dalla sua disperazione e inerzia; lo rende impavido e ripristina il rispetto di sé. Per far ciò, se il nativo si libera dal suo complesso di inferiorità, non è più inferiore; se non è più inferiore, il colonizzatore non è superiore; se il colonizzatore non è superiore, allora l’idea di impero viene compromessa, gli idoli crollano e l’imperialismo cade.
Pertanto, scrive Fanon, “è proprio nel momento in cui egli [il nativo] realizza la sua umanità che comincia ad affilare le armi con cui si assicurerà la vittoria”. La funzione delle teorie razionalizzatrici che chiariscono l’impensabile diventa allora evidente: è la preservazione del dominio, della gerarchia, del futuro dei coloni, del sé imperiale.
La minaccia posta da qualsiasi atto di resistenza indigeno in qualsiasi parte del mondo colonizzato non è semplicemente una minaccia materiale per il suo obiettivo diretto o per la signoria locale, ma un flagello esistenziale contro l’impero e l’imperialismo nel suo complesso. Nelle parole sempre pertinenti di Ghassan Kanafani, “L’imperialismo ha posto il suo corpo nel mondo, la testa nell’Asia orientale, il cuore nel Medio Oriente, le sue arterie raggiungono l’Africa e l’America Latina. Ovunque lo colpisci, lo danneggi e servi la Rivoluzione Mondiale”.
Devo concludere con una spiegazione. L’idea per questo pezzo mi è venuta per la prima volta il 7 ottobre. Da allora ho pensato di scriverlo, ma mi sono trovato bloccato dalla devastazione del genocidio. Come posso scrivere di qualcosa oltre al genocidio? Infatti, mentre state leggendo questo pezzo, un bambino palestinese – l’anima dell’anima di qualcuno – è stato assassinato a Gaza. Ogni 7 minuti. Man mano che i giorni si trasformavano in mesi, pensare, parlare o scrivere di qualsiasi altra cosa sembrava sempre più inappropriato, persino immorale. Dopo un dibattito senza fine, mi sono ricordato dello schema della storia coloniale: dopo un atto di resistenza dei nativi arriva la brutalità più feroce e sfrenata della colonia di coloni. È progettato per insegnare una lezione, per far dimenticare al nativo i suoi trionfi – per quanto piccoli – in modo da inghiottirlo nel fuoco e affogarlo nel sangue fino a consumarlo. Non si può permettere che questa cancellazione e conquista rimangano incontrastate.
Mentre guardiamo le agenzie di stampa, i politici, gli ideologi e gli spettatori spiegare una situazione senza precedenti, privando i palestinesi del libero arbitrio – e dell’umanità – dobbiamo riconoscere gli ingranaggi igienizzanti, civilizzatori e banalizzanti della macchina imperiale in gioco. Mentre le bombe cadono su Gaza, cercando di cancellare la memoria dei palestinesi della loro vittoria, di seppellire sotto le macerie il loro barlume di liberazione e di cancellare dal mondo la memoria della loro presenza, non dobbiamo dimenticare. Il 7 ottobre, la Palestina ha rovesciato l’ordine mondiale imperiale e oggi, o domani, tra dieci o cento anni, sarà libera.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org
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