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Profughi: dopo le chiacchiere «umanitarie», la realtà della galera

Questa mattina (10 maggio) si è svolta al Tribunale di Milano la prima e unica udienza del processo contro i sette tunisini che diedero vita alla rivolta al CIE di via Corelli di fine aprile. Diciamo subito che, peggiorando la situazione dell’udienza preliminare (ricordiamo che in quell’occasione gli avvocati di ufficio assegnati ai sette ribelli, avevano rifiutato di patteggiare una pena di sei mesi senza sospensione della pena), oggi il giudice ha inflitto loro una condanna di dieci mesi. L’assenza di un’adeguata difesa legale, e le pressioni esplicite del giudice (“Se non accettate il patteggiamento la pena potrebbe essere notevolmente più alta!”) hanno certamente pesato inducendo i detenuti ad accettare tale patteggiamento rendendo così definitiva e inappellabile la condanna. Sette persone che avrebbero dovuto godere di un permesso di soggiorno temporaneo (per via del decreto presidenziale dell’11 aprile) e che nelle loro intenzioni erano diretti in Francia, finiscono così nelle maglie della repressione, aprendo l’ormai risaputo circolo vizioso CIE-carcere-CIE che calpesta la vita di migliaia di immigrati in nome delle leggi razziste dello stato e dell’Europa di Shengen. Alla lettura della sentenza in aula si sono levate proteste che hanno subito allertato e messo in movimento le forze dell’ordine che hanno circondato costringendoli infine a lasciare il tribunale.La presenza dei solidali ha avuto giusto il merito di far capire ai sette malcapitati che la loro determinazione (ricordiamo che tutti e sette si sono rivendicati in aula la rivolta di fine aprile in Corelli) non era passata inosservata tra gli antirazzisti e che, non rimarranno soli.Troppo poco, di fronte all’infernale meccanismo che non lascia scampo a coloro che cadono nella rete del meccanismo concentrazionario-espulsivo che da ormai troppo tempo segna la vita sociale dell’Italia e dell’Europa intera. Comitato antirazzista.