Mercoledì in Cassazione il verdetto definitivo sulla vicenda delle migliaia di morti di mesotelioma pleurico a Casale e dintorni causato dalle polveri di amianto
di Giampiero Rossi
Il «processo del secolo» è arrivato all’ultimo atto. O almeno, è quel che si augurano i familiari delle vittime dell’amianto targato Eternit. Mercoledì 19 novembre la Corte di Cassazione pronuncerà il verdetto definitivo sulla vicenda delle migliaia di morti per mesotelioma pleurico (il tumore provocato dell’inalazione di polveri d’amianto) nei quattro stabilimenti italiani della multinazionale elvetico-belga e tra i cittadini di Casale Monferrato, Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). I giudici della Suprema corte dovranno decidere se confermare la condanna a 18 anni all’unico imputato rimasto nel processo: il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, giudicato in primo e in secondo grado a Torino, insieme all’altro erede delle dinastie proprietarie dell’impero Eternit, il barone belga Louis de Cartier de Marchienne, morto prima della conclusione del processo d’appello. In primo grado entrambi erano stati condannati a 16 anni.
Sapevano e disinformavano
L’accusa è di disastro ambientale doloso, maturata per oltre quarant’anni nelle ricostruzioni di alcuni sindacalisti, medici, avvocati e familiari delle vittime di Casale Monferrato, e poi sviluppata e irrobustita giudiziariamente dalle indagini del procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello. In sostanza, secondo le ricostruzioni di Guariniello, finora confermate dal Tribunale e dalla Corte d’appello sostenuto Stephan Schmidheiny e i massimi vertici del colosso Eternit sapevano, almeno dagli anni Settanta, che l’amianto provocava malattie letali e che quelle lavorazioni avvelenavano gli ambienti, ma hanno scelto consapevolmente di proseguire nelle lavorazioni nocive e, anzi, hanno avviato una campagna di controinformazione per arginare i focolai di protesta sindacale.
Documenti e disinformazione
La procura di Torino ha sequestrato moltissimi documenti che lo provano e ha anche smascherato alcune «spie» che erano pagate per controllare le mosse di Bruno Pesce e Nicola Podrano, i due sindacalisti della Cgil di Casale, che sono stati il motore iniziale e decisivo della battaglia contro l’Eternit. Addirittura, è emerso dal processo, in un «seminario» convocato nel 1976 da Schimdheiny a Neuss, in Svizzera, non lontano dal quartier generale Eternit di Niederurnen, si discusse apertamente delle strategia per difendere l’industria dell’amianto dalle crescenti contestazioni in tutta Europa e in Italia in particolare. «Stephan Schmidheiny – scrivono infatti i giudici d’Appello nella sentenza del 3 giugno 2013 – utilizzò il seminario di Neuss del 1976 per impedire che i numerosi settori delle collettività ancora interessati a utilizzare i manufatti di cemento-amianto divenissero pienamente consapevoli dell’elevata nocività delle fibre sprigionate da quel materiale e pretendessero degli interventi che, se eseguiti, avrebbero reso di fatto impossibile e comunque troppo oneroso l’esercizio delle attività produttive. A questo fine egli aveva ideato di realizzare un’opera di disinformazione diretta a creare l’erronea convinzione che sarebbe stato sufficiente rispettare i «valori limite di soglia» (peraltro indicati in modo inappropriato anche in relazione alle conoscenze già allora disponibili e mai veramente perseguiti con atti coerenti) per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro e delle aree a essi vicine». Infatti, si legge ancora nella sentenza di secondo grado, «trascorsero quasi dieci anni da allora, fino a quando non fu più possibile nascondere la pericolosità delle fibre di amianto e gli stabilimenti furono costretti a chiudere. Il fenomeno epidemico si è così dilatato nel tempo con modalità che inducono a concludere come l’evento disastro non sia ancora consumato per intero». Perché le polveri prodotte da quelle fabbriche hanno progressivamente contaminato anche l’ambiente circostante, provocando malattie a morti anche tra cittadini che non hanno mai lavorato per l’Eternit.
«Voglio incontrare Schimdheiny»
I familiari delle vittime di Casale, come hanno sempre fatto durante tutte le fasi del processo, ci saranno anche questa volta. Mercoledì mattina, dalle 8.30, si raduneranno sotto le finestre della Corte di Cassazione insieme a rappresentanze si sindacati, istituzioni e associazioni di familiari provenienti da Francia, Spagna, Svizzera, Belgio, Gran Bretagna, Brasile, Stati Uniti, Argentina. È prevista anche la presenza di Luciano Lima Leivas, magistrato brasiliano del pool della procura federale del lavoro, in visita in Italia per incontrare il procuratore Guariniello. A prescindere dal verdetto, Romana Blasotti Pavesi, che suo malgrado è diventata il simbolo di questa vicenda (ha perso marito, figlia, nipote, sorella e cugina a causa del mesotelioma pleurico, provocato dall’esposizione all’amianto) lancia un appello all’imputato: «Prima di morire vorrei incontrare Stephan Schimdheiny. Tanto non mordo – ironizza l’ottantacinquenne insignita una settimana fa del titolo di commendatore – vorrei solo potergli dire alcune cose. Per favore, fategli sapere che vorrei davvero incontrarlo».
La strage silenziosa
A Casale Monferrato lo stabilimento della multinazionale del cemento amianto ha chiuso alla fine del 1986. Grazie alla spallata dell’allora sindaco democristiano, Riccardo Coppo, che con un’ordinanza coraggiosa ha vietato l’uso di amianto nel territorio comunale. Fu quella, di fatto, la prima “legge” anti-amianto d’Europa. Il Parlamento Italiano ha varato quella tutt’ora vigente soltanto nel 1992 e altri Paesi sono arrivati ancora dopo, a seconda della forza di resistenza della potente lobby dell’asbesto. Ma i danni provocati dalla diffusione massiccia di polveri di amianto continuano a farsi sentire. Ancora oggi, a Casale, su una popolazione che oscilla attorno ai 35 mila abitanti, si registrano ogni anno una cinquantina di nuovi casi di mesotelioma pleurico, una forma di tumore contro la quale finora la medicina si trova quasi disarmata. Nel fascicolo processale che è all’esame della Cassazione figurano oltre 2 mila parti civili, ma il numero dei morti per «malattie asbesto-correlate», come si dice tecnicamente, è incalcolabile: quasi 3 mila, quelle ricostruite dalle indagini torinesi, ma la strage – nel tempo – ha assunto dimensioni spaventose.
La bacheca di fronte alla fabbrica
Lo stabilimento Eternit di Casale fu inaugurato nel 1907. Da allora, per ottant’anni, i casalesi hanno imparato a familiarizzare con quella polvere leggerissima, che trovavano dappertutto e che – grazie agli «omaggi» dei materiali di scarto da parte dell’azienda – è entrata anche nelle case e negli usi quotidiani. Sottotetti, cortili, campi di bocce, oratori… dappertutto c’era l’amianto. A un certo punto, in un’ansa del Po a valle degli scarichi dell’Eternit, si era formata una spiaggia artificiale. La chiamavano «la spiaggetta», ci andavano a prendere il sole o a pescare. Intanto, sulla bacheca di fronte allo stabilimento si accumulavano i manifesti funebri degli operai e, nei reparti, si moltiplicavano le collette per le corone di fiori. Ma furono necessari molti anni e molte battaglie prima di avviare la campagna che ha portato prima alla chiusura della fabbrica e poi all’atto d’accusa contro i proprietari. I sindacati erano lacerati anche al loro interno, divisi tra necessità di tutelare il lavoro e urgenza di proteggere la salute (e la vita) degli operai.
Ma nel frattempo di mesotelioma pleurico moriva anche qualche dirigente e impiegati dell’Eternit, la panettiera di fronte alla fabbrica, il vigile urbano, il bancario… L’ultima vittima, per ora, è una giovane di 28 anni, alla quale il micidiale tumore alla pleura è stato diagnosticato la settimana scorsa.
Da Corriere.it