Due note sulla vicenda Fincantieri/Chantiers de l’Atlantique, a partire dai fatti.
I fatti sono noti. Macron ha deciso di nazionalizzare “a tempo” i Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire: non vuole che Fincantieri, che li ha appena comprati, abbia il controllo su di essi. Pretende che il controllo sia a metà: 50-50, invece che 67-33 a favore des italiens. Altrimenti, minaccia, non se ne fa nulla.
Immediata la reazione del boss di Fincantieri, Bono: “Siamo italiani ed europei, ma non possiamo accettare di essere trattati da meno dei coreani” (stava dicendo: da meno dei musi gialli, ma si è trattenuto per via dei grossissimi affari in ballo con la Cina). Altrettanto secco il ministro Calenda: “Non accettiamo di ridiscutere sulla base del 50-50”. Intorno, il coro della ‘libera stampa’ a suonare la stessa canzone, stesse note, stesse parole, ritornelli, etc., e gonfiare le vene del nazionalismo italiano, dell’orgoglio nazionale italiano contro lo sciovinismo francese e Macron, fino a ieri il bel salvatore dell’Europa, divenuto ora un secondo orrido Marine Le Pen…
Fin qui, niente di particolare, salvo una rettifica di una certa importanza da fare. Certo: è scontro tra stato-capitale francese/stato-capitale italiano, con la posta primaria delle grandi navi di lusso e, soprattutto, delle maxi-commesse belliche – lo chiarisce bene Bono: “I principali programmi militari sono quelli navali. Possiamo pianificare i prossimi 30 anni”. Ma, e di questo si tace accuratamente, è anche uno scontro capitale italiano-capitale italiano (per così dire) in quanto il grande alleato di Macron in questo tentativo di sabotare le intese precedenti è l’MSC di Aponte, un armatore italiano, che aveva tentato di mettere le mani sui Chantiers in cordata con la statunitense Royal Carribean International, senza riuscirci. E l’MSC non è un’azienduccia da nulla, è un gigante del trasporto navale, secondo nel mondo solo a Maersk. Dunque: lo scontro intorno ai Chantiers de l’Atlantique è un doppio scontro incrociato tra grandi pescecani del capitale globale, e le loro protesi politiche, che ha un preciso oggetto: la pelle da conciare dei lavoratori francesi, italiani e delle altre cento nazionalità del lavoro emigrato-immigrato, maggioritario tanto nei cantieri italiani di Fincantieri quanto a Saint-Nazaire (almeno 5.000 lavoratori immigrati e 2.700 lavoratori francesi), in vista di una contesa all’ultimo sangue con le rampanti imprese asiatiche, cinesi anzitutto.
Davanti a questo scontro, cosa avviene qui in Italia, a sinistra?
Calcato l’elmetto in testa, l’elmetto di guerra non quello anti-infortunistico, apre la mitragliata di dichiarazioni patriottiche Potetti, responsabile Fiom Fincantieri. Siamo davanti al risultato peggiore “per l’Italia”; il governo è stato finora debole; deve farsi sentire, pretendere ‘reciprocità’, se no ci scippano le fregate e altre lucrose commesse belliche: “è necessario difendere le nostre produzioni e le professionalità delle lavoratrici e dei lavoratori italiani di Fincantieri” – dice questo, dopo che anche la Fiom ha lasciato pressoché dimezzare i dipendenti diretti di Fincantieri in 15 anni, ha accettato la decurtazione di 1.500-3.000 euro di salario l’anno con l’ultimo accordo aziendale, ha sottoscritto le “flessibilità” di orario nei cantieri, dove regna tuttora una forma di semi-schiavismo tra i lavoratori degli appalti, etc. Squallida demagogia sindacal-nazionalista per difendere l’Italia (il capitale made in Italy) e l’azienda-Fincantieri, e legare al carro del padrone e dello stato i lavoratori – lo stesso padrone che negli ultimi vent’anni, supportato dallo stato, è andato avanti sospingendo all’indietro i lavoratori italiani e immigrati alle sue dipendenze, come ha denunciato in un recente documento il Comitato di sostegno ai lavoratori della Fincantieri di Marghera.
A questo tal Potetti si è subito affiancato il portavoce degli eurostoppisti, Cremaschi. Più brillante di lui, ha coniato un’efficace formula propagandistica: “L’Italia, come tutti i paesi del Sud, nella UE è colonia, mentre la Francia è paese coloniale. (…) O rompiamo con la UE, o siamo e resteremo una colonia”. E in mezzo ha piazzato una frase agghiacciante: “in un hotspot ci è finita anche Fincantieri”… l’ing. Bono e i suoi scagnozzi, dunque, come i richiedenti asilo africani… uhm.
L’Italia-colonia? Che spudorata menzogna! Solo perché ha in Francia appena 2.000 imprese con 100.000 salariati alle loro dipendenze contro un numero forse maggiore di imprese francesi in Italia con 240.000 dipedenti? Si è mai vista una colonia che esporta capitali in tutti i continenti? che si piazza all’ottavo posto nel mondo per estrazione dei profitti fuori dal proprio territorio, profitti da investimenti esteri – investimenti esteri che da vent’anni sono sempre maggiori di quelli esteri in Italia? che possiede oltre 40.000 imprese nella sola Romania, e altre migliaia in Serbia, in Albania, in Tunisia, in Senegal, in Cina oltre che in tutti i massimi paesi capitalisti del mondo, Francia inclusa? che possiede milioni e milioni di ettari di suoli agricoli e urbani fuori dall’Italia, e pozzi di petrolio e miniere, etc.? che ha 22 missioni belliche in giro per il mondo? che ha nelle sue mani forti quote di debito estero dei paesi poveri, e buone quote di titoli di stato degli altri paesi indebitati del Sud Europa, la Grecia per prima? Se così è, e così è, a quale traguardo aspirano gli eurostoppisti di Cremaschi? A non essere più “colonia”. Dunque, si deve dedurre logicamente, ad essere come la Francia, o magari sopra la Francia, nella gerarchia del capitale globale. Se si inviperiscono perché la Francia non ci tratta da pari, non può essere altrimenti. Il traguardo è quello di essere un paese colonialista, o cos’altro? Per quanto si continui inutilmente a negare, anche in lunghi saggi (su cui a suo tempo verremo), che la prospettiva euro-stoppista sia una prospettiva nazionalista, essa lo è invece al 100%. Nazionalismo “operaio” o “popolare”, ma il contenuto di fondo non cambia rispetto al nazionalismo capitalista-imperialista dei Bono&Calenda dietro i quali i dirigenti Fiom ed Eurostop, giustamente riunificati, si sono schierati di corsa, d’impeto, gli è venuto da dentro, dal ‘cuore’. Questo, mentre si stanno programmando trent’anni di grossi investimenti bellici, cioè di guerre da fare…
Sempre da questa sinistra, una sinistra davvero sinistra, sentiamo strepiti ancora più acuti. Con la Francia i governi italiani “balbettano”, bisognerebbe battere il pugno sul tavolo: prima di Renzi, che l’ha appena detto, lo ha sostenuto su “Contropiano” Astengo, un anti-renziano si deve immaginare, a riguardo dell’iniziativa di Macron in Libia. Astengo è così furioso per il tesoro che l’ingordo Macron e la Total hanno sottratto, o tentato di sottrarre, all’Italia, che arriva a chiedere le “urgenti dimissioni del governo per manifesta incapacità”. Incapacità in cosa? Nella tutela dell’interesse nazionale, ovvio. E i sindacalisti sovranisti di Usb a rimorchio, a lagnarsi della “ennesima misera figura del nostro paese”, della “insopprimibile voglia di farci male [come nazione, come capitale nazionale] che da anni si è impossessata della politica italiana”.
Per tutti costoro, insomma, è l’ora di rilanciare l’interesse nazionale contro i nemici esterni che lo limitano, e i lavoratori, implicitamente o esplicitamente, sono chiamati ad arruolarsi in questo scontro dietro, e sotto, i “propri” padroni e il “proprio” governo, l’attuale o, meglio, un nuovo governo che sia più determinato nel far valere gli interessi del capitale nazionale. Non è la prima volta che dai sindacalisti, più o meno “rivoluzionari”, arrivano appelli patriottici. Accadde già nella prima e nella seconda carneficina mondiale, o nelle immediate vicinanze di esse. La prospettiva è sempre la stessa, da allora fino ad oggi: conquistare “un posto al sole per l’Italia”, il “nostro paese”, le “nostre” aziende, così anche i lavoratori italiani potranno abbronzarsi un po’… Conquistarlo battendoci contro i lavoratori di altri paesi, le “loro” produzioni (cioè: i loro posti di lavoro) e le loro “professionalità” (cioè i loro salari, al dunque: le loro condizioni di vita).
A questa prospettiva di intensificata concorrenza tra lavoratori e di conflitti tra nazioni, che in Italia ha come punto di riferimento per la Fiom il partito di Renzi, e per i sindacalisti che hanno rotto con Fiom e Cgil solo sul piano organizzativo, non su quello ideologico-politico, il blocco di Eurostop, bisogna contrapporre una posizione internazionalista operante, che non sia solo ‘di principio’, sebbene i principi siano importanti, ma si traduca in una precisa e coerente iniziativa politica. Da anni, dentro e fuori il Comitato di Marghera, abbiamo pressato perché si organizzasse un primo coordinamento a scala nazionale dei delegati combattivi dei diversi cantieri, a quasiasi sigla sindacale appartengano, ma – finora – senza risultati. Rilanciamo oggi questa proposta a scala più ampia, almeno europea, sapendo che nei Chantiers de l’Atlantique sono presenti compagni che si richiamano all’unità internazionale tra i proletari sfruttati di tutti i cantieri e di tutti i paesi, e che ci si deve impegnare a raggiungere quanto meno i cantieri rumeni dai quali ci sono arrivati segni di forte scontento.
Se i pescecani alla Bono&Calenda, gli Aponte, i Gentiloni, i Macron si scontrano tra loro per il bottino, i lavoratori non hanno interesse a parteggiare per nessuno di loro. Né è più vantaggioso, per i lavoratori italiani o francesi, parteggiare per il proprio stato o il proprio paese, cioè per il “proprio” capitale. Ha detto bene un delegato CGT di Saint-Nazaire intervistato da Repubblica-Tv: “abbiamo cambiato quattro padroni in pochi anni, lo stato francese, i norvegesi, i coreani di STX, ora Fincantieri, ma noi lavoratori stiamo sempre peggio”. Di chiunque sarà, alla fine, la proprietà dei Chantiers de l’Atlantique, per i lavoratori della cantieristica il problema resta lo stesso: organizzarsi insieme, tra cantieri e tra paesi, per battersi insieme contro i padroni della cantieristica italiani, francesi, tedeschi, etc., e gli stati che li spalleggiano. Per mettere fine alla giungla, allo schiavismo degli appalti e imporre decine di migliaia di assunzioni stabili; per conquistare l’unificazione al rialzo delle condizioni contrattuali tra proletari dei diversi cantieri, e tra lavoratori autoctoni e immigrati; per riconquistare i livelli salariali perduti, sganciandoli dalla produttività; per radicare tra i lavoratori la prospettiva del lavorare meno, lavorare tutti a parità di salario; per riconquistare l’agibilità politica e sindacale dentro gli stabilimenti.
Il caso-Fincantieri è diventato in queste settimane emblematico. Ma, è evidente, il caso-Fincantieri rimanda all’intero settore metalmeccanico, e da questo alla condizione e al futuro della intera classe lavoratrice in Italia e in Francia: basti pensare che i falsi difensori del “lavoro italiano” sono i Renzi, i Padoan, etc., autori del brutale Jobs Act, e l’altrettanto falso difensore del “lavoro francese” è l’autore dell’altrettanto brutale, contro i lavoratori, Loi Macron. L’alternativa di fondo sempre più stringente che viene avanti, non solo in Italia e in Francia, nel mezzo di una grande crisi irrisolta, è questa: o una nuova ondata di funesto nazionalismo “operaio” alla coda degli interessi padronali e statali, o la rinascita della prospettiva internazionalista, su tutti i piani: politico, sindacale, organizzativo, e non solo ideologico. Con la sistematica, energica denuncia del nuovo boom della spesa bellica e del militarismo, a cui si vogliono legare i lavoratori della cantieristica, e non solo.
I tempi stringono. Gli organismi politici che si richiamano a una prospettiva internazionalista, e i circuiti del sindacalismo “di base” che rifiutano la concorrenza tra lavoratori, debbono darsi una mossa, e far seguire alle parole fatti coerenti e conseguenti. Rispetto ai promotori del “nazionalismo operaio” e “popolare”, siamo già in ritardo!
1 agosto 2017 Redazione de “il cuneo rosso” – Marghera
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