Così, dopo giorni e giorni di tentativi di arrivare a Venezia per rendere più visibile al mondo la loro protesta contro l’infame campo di concentramento di Cona, gli ultimi 69 rifugiati evasi dal “carcere” di Conetta (una vecchia base militare) sono dovuti ritornare alla base. Schiacciati dal ricatto del prefetto di Venezia Boffi: se non tornate, non avrete più diritto a chiedere l’asilo. Firmato: Gentiloni-Minniti. Schiacciati, ma non vinti.
Perché ancora una volta – non è certo la prima ribellione avvenuta a Conetta – hanno infranto il muro di silenzio e di omertà che copre le inumane condizioni esistenti in quel campo: tendoni con 150 posti-letto (e anche più), il gelo e la paura di morire per il freddo, pasti indecenti e freddi (accompagnati, forse, da pasticche che producono sonnolenza), servizi igienici insufficienti e lerci, disturbi psichici da sovraffollamento, zero attenzione per chi si ammala (unica medicina distribuita il paracetamolo), attese fino a due anni per avere risposta alla domanda di asilo con percentuali di diniego, a Padova, del 90%, zero assistenza legale. Il tutto gestito dalla solita finta cooperativa facente capo a Borile, un faccendiere-impresario di area-Alfano che fa affari con i rifiuti e gli immigrati, dopo essere passato per una serie di lauti incarichi amministrativi, per lo più pubblici.
Nigeriani, ivoriani, ghanesi, gambiani, auto-organizzati, erano “evasi” dal kampo in più di 200 e si erano messi in marcia verso la meta (54 km separano Venezia da Cona). Ma non sono riusciti ad arrivarci perché contingenti di polizia anti-sommossa e l’intervento dei prefetti di Padova e Venezia li hanno bloccati e poi sparpagliati tra una serie di strutture, per lo più della Chiesa, tra loro lontane, spesso altrettanto inospitali del campo di Conetta (a Spinea nella sede della cooperativa CSSA erano stipati in 56 in 20 metri quadri!), fino all’epilogo che abbiamo detto.
Tre considerazioni si impongono.
La prima sul cinismo negriero dello stato che ha istituito questi hub (Conetta è solo uno dei tanti) come campi di controllo, selezione e umiliazione dei richiedenti asilo per educarli per tempo – i pochi che otterranno l’asilo, e tanto più gli altri costretti a diventare “clandestini” – a essere dei lavoratori “flessibili” modello, sottopagati, supersfruttati e grati all’Italia per la sua meravigliosa ospitalità. Lo stato che non ha avuto vergogna a fare uso, con i suoi funzionari governativi locali, di argomenti come questi: “nel 2017 a Cona ci sono stati 5 controlli dell’Asl, 2 dei Nas, 2 degli ispettorati del lavoro, 2 del ministero dell’interno, 1 dell’Acnur (agenzia dell’Onu), 1 della prefettura, e tutto è risultato in ottemperanza ai requisiti richiesti”. Altrettanto cinismo c’è stato nel temporeggiare nel momento più caldo e forte della protesta, promettendo, da bari, soluzioni alternative al kampo, nell’esclusivo intento di sfiancarla per ‘scoprire’ poi al momento opportuno che alternative non ce n’erano, e imporre il ritorno nel kampo, la soluzione più odiata dagli “evasi”.
La seconda è sulla generosità a scartamento molto, ma molto ridotto, della Chiesa, che alla fin fine ha svolto il ruolo di attiva collaborazione con lo stato e il governo nel ricondurre all’ordine i ribelli, magari dopo aver pianto con loro la morte di Salif Traoré, 34 anni e 6 figli, travolto nella sua fuga in bici da un’auto. Il patriarca di Venezia e la Caritas si sono infatti prestati a offrire rifugio per una notte o più notti ai dimostranti, e pasti caldi, ma se Venezia è rimasta per loro una città chiusa, altrettanto chiuso è rimasto per questi nostri fratelli di classe, che anche il papa chiama “fratelli”, l’immenso patrimonio immobiliare disponibile di proprietà della Chiesa.
Com’è noto la Chiesa è di gran lunga la più grande proprietaria immobiliare d’Italia (la Re stima che il 20% del patrimonio immobiliare italiano sia nelle sue mani); lo è in modo particolare nel veneziano e a Venezia, dove si sussurra che 1/3 della città sia della Curia. Ma nonostante le belle parole e l’umanità di certi suoi giovani, la generosità della Chiesa somiglia a quella dell’avaro di Molière. A dimostrarlo è anche un episodio accaduto in questi stessi giorni nel veronese, dove 8 eritrei si sono allontanati da un’ex-base Nato situata nella sperdutissima contradina Vaccamozzi sull’altopiano dei monti Lessini e hanno marciato per 35 km di notte nel gelo avvolti in lenzuoli verso Verona, intenzionati ad arrivare a Roma o a Milano per sottrarsi al confino, destando allarme nei locali scagnozzi della Lega, nel totale silenzio delle pie autorità cattoliche.
Eppure, denuncia Bartolo Fracaroli sul blog La Bottega del Barbieri, “sono decine e decine i grandi complessi religiosi a Verona città e in provincia”, incluso il nuovo seminario diocesano, “con centinaia e centinaia di posti letto, munito di ogni servizio e vuoto da anni”, che sta per essere opportunamente trasformato in un… centro commerciale, e che ora però “non è idoneo”, afferma il vescovado, per ospitare i richiedenti asilo. Largo ai mercanti nel tempio, e vade retro ai “fratelli” rifugiati…
La terza considerazione è sul grande coraggio e la capacità di auto-organizzazione dei rifugiati, capaci di progettare e attuare una protesta di massa che ha costretto anche i media conniventi con le politiche neo-schiaviste dello stato, del governo, degli enti locali e delle imprese a dare un qualche spazio alle loro ragioni, sebbene sempre rappresentate in termini di disperazione, e con il bieco tentativo di individuare e selezionare capi-personaggi da staccare dalla massa e addomesticare. La protesta ha avuto un po’ di solidarietà da alcuni organismi del sindacalismo di base e dei circuiti anti-razzisti di Padova e del veneziano, ma è stata accortamente tenuta sotto controllo attraverso la divisione in gruppi della massa dei dimostranti e il loro dirottamento verso piccoli comuni, e anche questo ne ha imposto il ripiegamento.
Per quanto ci è stato possibile constatare, però, nei luoghi di lavoro l’insubordinazione e le denunce di questi rifugiati hanno avuto questa volta un certo ascolto tra i lavoratori più sensibili. Come le forti lotte dei facchini immigrati della logistica, anche queste continue, piccole e non sempre piccole, ribellioni di reclusi negli Hub, nei Cas, nei Cpsa, nei Cara, nei Cda, nei Cie, nei Cai, restano finora, è vero, isolate, non supportate dalla calda e attiva solidarietà che meritano, ma stanno cominciando a produrre effetti, a scuotere l’indifferenza e in qualche caso anche a suscitare ammirazione. La loro denuncia-richiesta fondamentale: smantellare l’intero sistema dei campi di concentramento, in Italia, in Libia, nell’Est Europa, nonostante tutto, cammina.
Ecco perché lascia molto perplessi il comunicato emesso, a rientro a Cona avvenuto, dall’Usb, in cui da un lato si accoglie la richiesta dello smantellamento di Cona e della concessione del permesso di soggiorno a tutti i “carcerati” del kampo, ma dall’altro si formulano una serie di richieste di carattere amministrativo e organizzativo che presuppongono, invece, il mantenimento di tutta la macchina di oppressione delle cooperative, chiedendo semplicemente di sottoporla a un non meglio precisato “controllo esterno”, e ipotizzando di ridislocare i richiedenti asilo in altre e più idonee strutture. Che è come tenere il piede in due staffe nel tentativo di accreditarsi da un lato con i richiedenti asilo, e dall’altro con le istituzioni che li schiacciano e li umiliano.
Noi siamo invece convinti che anche da questa protesta degli emigrati africani di Cona viene l’invito a dare corpo quanto prima – a livello nazionale – ad un grande movimento di lotta, svincolato dai miseri calcoletti di bottega, elettorali e istituzionali, per la chiusura di tutti i luoghi di detenzione amministrativa esistenti in Italia e il completo smantellamento di tutto il sistema dei kampi di detenzione e stupro costruiti in Africa del Nord su mandato dell’Unione europea e dell’Italia.
Un grande movimento di lotta per il permesso di soggiorno a tutti i richiedenti asilo e ai 500-600.000 immigrati caduti nell’irregolarità o tenuti intenzionalmente nell’irregolarità, e per l’abolizione di tutta la legislazione contro gli immigrati, che serve a farne forza di lavoro a basso costo e zero diritti. Un grande movimento di lotta che si metta in contatto con tutte le resistenze in corso fuori dall’Italia alle guerre e alle politiche migratorie neo-coloniali dell’Italia e dell’Unione europea. Non ci stancheremo di ripeterlo perché è vero: il destino dei proletari emigranti e immigrati (economici o ‘politici’ che siano, la distinzione è priva di senso) è il destino di tutti i lavoratori! E non si tratta di dare aiuto compassionevole a dei poveri disperati, ma di imparare dalla loro forza, dal loro spirito collettivo, dal loro coraggio, dalla loro capacità di auto-organizzarsi ed esprimere rivendicazioni radicali.
27 novembre
Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri – comitatosostegno@gmail.com
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