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[ITALIA] La morte sul lavoro non é mai una fatalità: sul lavoro si muore più che in guerra. Lavorare er vivere non per morire!

La morte sul lavoro non è mai una fatalità.
Sul lavoro si muore più che in guerra.

Intervento all’assemblea LAVORO PER VIVERE NON PER MORIRE!
7 dicembre 2019, 12° anniversario della strage alla Thyssen: 7 operai bruciati vivi
Michele Michelino (*)

In Italia negli ultimi dieci anni i morti per infortuni sul lavoro sono più di 17 mila e ogni anno sono 1.400 (120 al mese) i morti sul lavoro mentre decine di migliaia sono quelli per malattie professionali (solo per amianto oltre 6.000 all’anno).

A questi numeri vanno aggiunti gli altri morti del profitto causati dai risparmi sulla sicurezza (ponti che crollano, disastri ambientali, inondazioni e altro ancora).

Per i capitalisti, i governi e i politici che rappresentano i loro interessi, i morti sul lavoro sono effetti collaterali dello sfruttamento e come tali accettati come inevitabili.

In particolare, quando si arriva ad un processo e lo Stato e i suoi rappresentati sono imputati di strage, lo Stato assolve sempre se stesso, come dimostra anche l’ultimo episodio della strage di Rigopiano, in cui i politici sono stati salvati.

L’Italia è il paese in cui – subito dopo l’incendio che uccise i 7 lavoratori bruciati vivi nel 2007 – gli industriali applaudono i dirigenti assassini della ThyssenKrupp.

Durante l’assise di Confindustria l’A.D. Harald Espenhahn fu molto applaudito, nonostante la sentenza di condanna a 16 anni.

Emma Marcegaglia, allora presidente dell’Associazione degli imprenditori, così disse nel suo intervento all’assemblea di Bergamo il 7 maggio 2011: «È un unicum in Europa .

Una cosa di questo tipo, se dovesse prevalere, allontanerebbe gli investimenti esteri mettendo a repentaglio la sopravvivenza del sistema produttivo.

È un tema che va guardato con grande attenzione, nel massimo rispetto per la sicurezza sul lavoro, ma una cosa di questo tipo se dovesse prevalere allontanerebbe gli investimenti dall’Italia».

Marcegaglia aveva poi assicurato «il massimo impegno per la sicurezza» e annunciato di voler incontrare i familiari dei lavoratori morti.

Cosi oltre al danno aggiungeva la beffa.

Il 13 maggio del 2016 la Corte di Cassazione – quarta sezione penale – ha condannato l’amministrare delegato Espenhahn e il consigliere Priegnitz a pene definitive, rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e a 6 anni e 10 mesi, ma questi assassini non hanno mai scontato un giorno di carcere per la strage operaia del 2007 nell’acciaieria. Oggi, nonostante la condanna, questi criminali sono liberi in Germania perché questa nazione non applica la sentenza e non rispetta la legge Italiana.

Guarda caso è la stessa cosa che fa oggi ArcelorMittal sull’ILVA di Taranto

In galera finirono solo i dirigenti italiani Cosimo Cafueri(responsabile della sicurezza), condannato a 6 anni e 8 mesi, Marco Pucci (consigliere del CdA) a 6 anni e 10 mesi, Raffaele Salerno (Direttore dello stabilimento di Torino), 7 anni e 2 mesi, Daniele Moroni (dirigente area tecnica e servizi), 7 anni e 6 mesi; tutti, dopo la sentenza, si sono consegnati alle autorità per scontare la propria pena.

Ormai stanno per uscire tutti dal carcere: Pucci già a giugno 2017 aveva ottenuto la possibilità di svolgere un lavoro esterno al carcere e nel frattempo ha anche chiesto la grazia al presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Lo scontro capitale /lavoro Nel nostro paese c’è una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola, quella degli operai, dei lavoratori che producono la ricchezza da cui sono esclusi.

Così scriveva, quasi 50 anni fa, Giovanni Berlinguer in “Medicina del lavoro” –
“La salute nella fabbrica”, edizioni Italia – URSS, Roma 1972, pag. 32: “Nel ventennio 1946–1966 si sono verificate in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi.

Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre
mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946–1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”.

Sono passati molti anni da questo studio ma la condizione della classe operaia italiana è in continuo peggioramento.

Nella crisi si riducono i posti di lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, ma continuano ad aumentare gli infortuni.

Gli incidenti sul lavoro in Italia hanno fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati della coalizione occidentale della 2° guerra del Golfo. L’Eurispes ha calcolato che dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari che hanno perso la vita sono stati 3.520, mentre dal 2003 al 2006 in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252 e l’età media di chi perde la vita è intorno ai 37 anni.

Anche se la Costituzione afferma che l’operaio e il padrone sono uguali e hanno stessi diritti, la condizione di completa subordinazione economica sancita dall’ordinamento giuridico fa sì che la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini sia solo formale. In realtà in una società divisa in classi, i lavoratori vivono una condizione di uguaglianza giuridica astratta, e una situazione concreta, di fatto, di disuguaglianza sociale ed economica.

L’art. 32 della Costituzione recita che: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”.

In realtà con la privatizzazione della sanità pubblica questo articolo, anche se mai abrogato, è ormai carta straccia, un affare per le assicurazioni, gli ospedali privati e le multinazionali farmaceutiche a scapito del diritto alla salute dei cittadini, tuttora formalmente garantito dalla Costituzione.

Dietro le vuote parole della democrazia si nasconde la cruda realtà della
dittatura del capitale fatta di violenza, licenziamenti, assassinii contro
chi si oppone e ostacola la “libera accumulazione del profitto”.

Una delle parole d’ordine che abbiamo sempre sostenuto in fabbrica fin dagli anni ‘70 è stata: “La salute non si paga – la nocività si elimina”, scontrandoci con il padrone (che dava la paga di posto più alta per i lavori nocivi e mezzo litro di latte) e il sindacato che barattava salario e salute.

Anche alcuni nostri compagni di lavoro vedevano nell’indennità di nocività la possibilità di arrotondare il salario (anche se di poche lire) senza essere coscienti pienamente dei pericoli per la salute.

Questa concezione è tuttora dominante. Nei processi penali e civili si continua a monetizzare la salute e la vita umana.

In molti processi, i padroni o i manager, pur essendo stati riconosciuti
colpevoli di omicidio colposo sono rimasti impuniti e nessuno di loro ha pagato.

Ancora oggi nel 2019, nella” moderna e democratica” società capitalista gli operai continuano a morire di lavoro e di non lavoro per il profitto come nell’Ottocento.

In questa guerra del capitale contro i lavoratori negli ultimi anni vediamo anche in forte aumento i suicidi di lavoratori disoccupati, cassintegrati o colpiti dalla repressione e dal dispotismo padronale nel totale silenzio delle istituzioni e della stampa Tv, e non è un incidente di percorso o la dimenticanza il fatto che la magistratura non apra inchieste.

Basta con l’ipocrisia di chi legittima e sostiene lo sfruttamento per realizzare maggiori profitti e poi in pubblico versa lacrime di coccodrillo.

Per noi anche una sola morte sul lavoro o per di malattia professionale a causa del profitto è intollerabile e va impedita.

Con la manifestazione di oggi vogliamo iniziare a costruire nel paese un movimento operaio e popolare di lotta per la salute e la sicurezza sui posti di lavoro e nel territorio, con l’obiettivo di impedire che si continui a morire per il profitto “costringendo” il legislatore a varare una legge che equipari l’omicidio colposo e ancor più quello volontario almeno al dolo eventuale e all’omicidio stradale (che prevede pene fino a 15 anni).

Il movimento operaio epopolare si deve battere per la difesa della salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro e nel territorio, per il rischio zero.

Il capitalismo è la società del crimine legalizzato contro i proletari e dobbiamo
lottare contro questo sistema barbaro e inumano: questo è l’unico modo per
impedire che gli infortuni e i morti sul lavoro e di lavoro, i morti del
profitto non vadano mai in prescrizione e siano invece considerati veri e
propri crimini contro l’umanità.

(*) Presidente del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio

Mail: cip.mi@tiscali.it http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com
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