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[ANALISI] Recovery Fund: altri 750 miliardi sulle spalle dei lavoratori!

Pubblichiamo qui sotto l’articolo “Recovery Fund: altri 750 miliardi sulle spalle dei lavoratori ” realizzato dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


Recovery Fund: altri 750 miliardi sulle spalle dei lavoratori!

Il gran giorno degli europeisti è arrivato: ieri 27 maggio la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato la sua proposta per il Recovery Fund su cui si dovrà pronunciare il vertice dei capi di Stato e di Governo previsto per metà giugno. Con questa “storica” decisione, se verrà approvata, l’Unione europea aggiungerà al già pesantissimo debito pubblico esistente un nuovo colossale fardello di 750 miliardi di euro che, al pari di quello pregresso, graverà sulle spalle dei proletari di tutta Europa (e non solo), cui toccherà di assicurarne la remunerazione e il rimborso.

Dal punto di vista degli interessi di classe in gioco, dunque, nessuna novità. La bandiera dietro cui marciano compatte le classi dominanti del vecchio continente – e di tutto il mondo – non solo resta immutata, ma si rafforza ulteriormente: è la linea dell’ingigantimento del debito di stato, un meccanismo che stringe attorno al collo del proletariato un cappio sempre più soffocante. Non a caso è stato denominato “Next Generation” (prossima generazione) perché, nelle intenzioni dei decisori europei, dovrà strangolare non solo l’attuale ma anche le future generazioni di proletari, costretti dalla garrota del debito di Stato a vedere precipitare le loro condizioni di vita e di lavoro a livelli ben peggiori di quelli che già hanno conosciuto, accentuando ulteriormente la macelleria sociale che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi degli ultimi anni.

Padroni, finanzieri, hedge funds, banche, fondi di investimento, speculatori, “risparmiatori di professione” e tutta la schiera di parassiti che vive “tagliando cedole” e facendo valere ad ogni stormir di fronda il sacro diritto a veder remunerato il proprio capitale monetario, ha di che gioire: una nuova abbuffata di “debito sovrano” (per di più tripla A, mica robaccia…) è in arrivo e, con esso, altri anni di profitti assicurati dal sudore, dallo sfruttamento, dalla fatica e dalla miseria di milioni di proletari che dovranno buttare sangue nelle catene di montaggio, nei magazzini, nelle grandi come nelle piccole aziende, nel privato come nel pubblico impiego, a vantaggio di chi, da sempre, detiene la stragrande parte del debito pubblico. E non solo di lavoratrici e lavoratori attivi sul suolo europeo si tratta e si tratterà, perché nei programmi dei poteri forti europei c’è anche un rafforzamento della proiezione internazionale autonoma dell’Unione europea – che, tradotto, significa intensificare l’aggressione agli sfruttati e ai popoli del Medio Oriente, del mondo arabo, dell’Africa, di tutto il Sud globale fino al sogno di sottomettere una seconda volta l’intera Asia un tempo emergente, ed ormai emersa.

La narrazione mainstream sottolinea che la proposta della Commissione Europea è una svolta epocale in direzione della “solidarietà”, ponendo soprattutto l’accento su quelli che vengono definiti trasferimenti “a fondo perduto”. L’espressione non è usata a caso. Essa suggerisce l’idea che i soldi che arriveranno sono “regalati”, che “non dovranno essere restituiti” e così via. In realtà, le cose stanno in modo del tutto diverso. La Commissione Europea emetterà bond – cioè titoli di debito – sui mercati internazionali per raccogliere i capitali necessari, che poi provvederà a ripartire, secondo gli schemi fatti circolare, per due terzi (500 miliardi) sotto forma di trasferimenti e per il restante terzo (250 miliardi) come prestiti a tassi agevolati. Questo, ovviamente, implica che i titoli andranno remunerati con il pagamento delle cedole e rimborsati a scadenza. La garanzia di questo debito è rappresentata dai bilancio comunitario, che dovrà essere rafforzato, sia con l’aumento dei contributi versati dai singoli Stati che con l’istituzione di nuove tasse comunitarie indirette. Probabilmente queste ultime, ben più delle varie proposte di web tax, da sempre rimaste nel campo delle vaghe allusioni, saranno il piatto forte delle novità fiscali che accompagneranno il varo del Recovery Fund. E con esse, ci sarà un rincaro di molti generi di consumo, che troverà sicuramente nel nuovo green deal una giustificazione “etica”, oltreché economica.

Non c’è dubbio che, dal punto di vista dei rapporti inter-imperialistici all’interno dell’UE, il Recovery Fund rappresenta una novità rilevante, perché introduce una mutualizzazione del debito, ancorché limitata e temporanea, ed è questa la ragione per la quale è avversata dai cosiddetti frugali (i più gretti e avidi tra gli stati-strozzini), ostili a mettere il loro “merito di credito” al servizio del bilancio comunitario e dei paesi più fortemente indebitati come l’Italia. Per le ragioni opposte, questi ultimi vedono il RF con favore, perché permette una maggiore libertà d’azione nel bilancio statale, abbassando i costi del finanziamento e garantendo un vantaggio ulteriore. Il governo Conte ha di che essere soddisfatto. Secondo lo schema del piano, infatti, all’Italia arriverebbero 172,7 miliardi di euro, di cui 81,8 come trasferimenti e i restanti 90,9 sotto forma di prestiti. Tralasciando i prestiti, che dovranno essere restituiti, i trasferimenti, anche tenendo conto dell’incremento dei contributi, dovrebbero comportare un saldo netto variabile dai 20 ai 25 miliardi. Ma si tratta di vantaggi e svantaggi che riguardano la borghesia dei diversi paesi, mentre lasciano impregiudicato il carattere anti-proletario della manovra. Se l’Italia, ad esempio, ottenesse come trasferimenti più di quanto versa al bilancio dell’UE, questo avrebbe come contraltare che il peso del debito si scaricherebbe maggiormente non “sulla Germania”, come amano dire i sovranisti, ma sui proletari tedeschi, sottoposti dalla propria borghesia ad un maggiore sfruttamento e a un ulteriore taglio della spesa sociale.

In Italia, sia lo schieramento di governo che Forza Italia salutano la proposta Von der Leyen come l’apertura di una nuova positiva fase all’interno dell’Unione. Ma anche Lega e Fratelli d’Italia, che avanzano critiche, sono spiazzati dal nuovo corso. Se Salvini si limita a balbettare qualcosa sul fatto che si è ancora nel campo delle promesse, Meloni ipotizza un ricorso al FMI abbinato al varo di un piano di “bond patriottici”, secondo la proposta di Tremonti, il tutto come strumento di pressione nella trattativa con l’asse franco-tedesco e sulla base di un rapporto privilegiato con gli USA, nell’illusione di ereditare dentro l’UE il ruolo di guastatori pro-Washington che fu della Gran Bretagna (l’ultimo numero di Limes illustra questo “grande disegno” filo-amerikano). Al netto delle sparate sulla “consapevolezza della forza che ha l’Italia nello scenario mondiale”, resta una ricetta basata su un mix di forme diverse di debito di stato che conferma come questa sia la linea unica dell’establishment capitalistico (destra/centro/sinistra) in questa fase.

Ma l’avvelenamento nazionalistico del proletariato, coltivato ad arte dalle classi dominanti di tutti i paesi, è ormai da tempo interiorizzato anche dal “sovranismo di sinistra”, del tutto succube delle politiche borghesi ed incapace di concepire una prospettiva strategica di lotta dei lavoratori al di fuori delle ricette ufficiali, tutte incentrate sulla “nazione” come soggetto i cui interessi vanno salvaguardati e difesi. Così si spiega l’orgogliosa rivendicazione di “sfondare il tetto del deficit” come sfida all’UE e premessa dell’uscita dall’euro e del “recupero della sovranità monetaria” e la denuncia degli eurobond non perché del tutto interni al piano di ingigantimento del debito di Stato, e quindi parte organica dell’offensiva anti-proletaria, ma come illusione destinata a non realizzarsi per l’ostilità tedesca. Al sovranismo “di sinistra” oggi non resta altro da fare se non piagnucolare sul fatto che l’UE “deve fare di più”, che “ci” (a noi-Italia) dà solo una mancia, mentre ci vorrebbe un Recovery Fund da 1000 o 1500 miliardi, o magari ci vorrebbe che la BCE monetizzasse il debito, “come fanno tutte le altre Banche Centrali”, dimenticando che anche la linea della monetizzazione del debito fa parte (e lo ha ben dimostrato nel passato) dell’armamentario delle politiche borghesi per scaricare sui proletari i costi della crisi del loro sistema. Stiamo parlando qui, oltre che di un pulviscolo di agitati fantasmi (Patria e costituzione, Programma 101 e via dicendo), di Rifondazione, Rete dei comunisti e parte del sindacalismo “di base” che non sa e non vuole darsi altro obiettivo che il ritorno al passato, al “keynesismo”, magari con l’aiuto dei Cinquestelle (!?).

Altri di extra-sinistra, davanti a decisioni importanti e gravi come quella di ieri, scrollano le spalle, sostenendo che “non è affare nostro”, dei lavoratori e dei compagni. Le politiche fiscali e del debito di stato sono questioni di capitalisti e tra capitalisti, al più tra grandi e piccoli borghesi. Niente di più puerile e anti-marxista (visto che alcuni di loro si dicono marxisti) di questa indifferenza in materia politica, dato che da mezzo secolo ormai le politiche fiscali e di ingigantimento del debito pubblico sono usate sistematicamente dai governi, dagli stati, dal sistema bancario, dagli industriali, come un’arma affilata contro la classe operaia e l’intero campo del lavoro salariato (oltre che come un randello contro un’area del piccolo lavoro autonomo, nel tentativo di scagliarla contro i lavoratori).

La prospettiva internazionalista rivoluzionaria per cui ci battiamo è, invece, quella della lotta a fondo contro le linee di governo delle classi dominanti, che oggi hanno come perno essenziale l’incremento esponenziale del debito di stato, con tutto ciò che esso comporta per ripagarlo. Il sistema capitalistico mondiale ha sprofondato i proletari dei paesi dominanti e ancor più la sterminata massa degli sfruttati delle aree periferiche in una crisi senza precedenti. La pandemia, provocata da un modo di produzione che aggredisce l’ambiente naturale in modo sempre più violento e pervasivo, creando le condizioni più favorevoli per lo scoppio e la diffusione delle epidemie, si è combinata col degrado crescente del sistema sanitario, piegato al profitto e trasformato in un redditizio campo di investimento del capitale. Tutto ciò ha innescato una recessione economica mondiale, i cui prodromi erano già presenti e che hanno trovato alimento negli altri fattori di crisi. I capitalisti di tutti i paesi non possono affrontare questa doppia o tripla crisi in altro modo che non sia quello di rafforzare le cause che l’hanno generata, come già hanno fatto nella crisi del 2007/2008. Trasformare il debito privato delle banche e delle imprese in debito pubblico e accollarlo per decenni al proletariato, tagliando sistematicamente ogni componente del salario indiretto, della spesa sociale, della previdenza, aumentando forsennatamente lo sfruttamento e smantellando ogni residuo “diritto” dei proletari. A tale linea dobbiamo opporre una lotta politica di classe centrata sull’aggressione aperta e rivendicata alla ricchezza capitalistica, ai patrimoni accumulati dalla classe borghese con lo sfruttamento e l’estorsione del lavoro non pagato dei proletari, insieme – e non certo in assurda opposizione – al rilancio della lotta per il salario diretto e indiretto, o meglio sociale, e per la riduzione drastica, generale e incondizionata degli orari di lavoro a parità di salario.

Il nostro programma storico consiste nel rovesciamento del capitalismo, nella definitiva espropriazione della classe capitalistica, che comporterà evidentemente anche l’annullamento del debito di stato in quanto debito di classe. All’oggi non esiste la forza per attuare questo rovesciamento, è evidente. Possiamo però cominciare a metterne in discussione il predominio nella società, rivendicando una patrimoniale che tagli le unghie alla rapacità del capitale, gli strappi un po’ del potere e della ricchezza accumulata in modo sempre più sfrontato negli ultimi decenni – sul presupposto di una forte ripresa delle lotte e di una altrettanto forte modifica dei rapporti di forza tra le classi. Si tratterebbe, ancora, di una lotta proletaria per difendere la propria esistenza dagli effetti devastanti della crisi, ma sarebbe anche un modo per porre su basi concrete il passaggio alla necessaria controffensiva, per porre all’ordine del giorno la necessità inderogabile di una battaglia contro il capitale nel suo complesso, mettendo sotto accusa non questa o quella misura anti-operaia, ma il capitale in tutte le sue forme, l’apparato statale e di governo, le istituzioni. Una patrimoniale che, insieme con il rilancio della lotta salariale e per la riduzione degli orari di lavoro, allenti il cappio economico-sociale stretto attorno al collo di milioni di operai, disoccupati, lavoratori in nero, immigrati, giovani senza prospettive, precari, e inizi a scuotere, la sicurezza con cui i padroni da troppo tempo si muovono, certi della nostra debolezza e della nostra supina accettazione di ogni infamia. Se incominceremo a muoverci e a batterci unendo in un solo fronte di classe le forze ora disperse in tanti rivoli, come proposto dal Patto di unità d’azione animato dal SI Cobas, sarà più facile fare degli ulteriori passi in avanti sulla strada della riscossa.

Davanti alla decisione della Commissione europea di ieri, è questo il messaggio di lotta che lanciamo ai lavoratori di avanguardia e alle forze coerentemente anti-capitaliste operanti in tutta Europa per unirci contro i capitalisti e i governi di tutto il continente, e proiettarci anche noi fuori dai confini europei verso i nostri fratelli e le nostre sorelle di classe che da anni scuotono con le loro lotte l’intera area medio-orientale e le altre “periferie” del Sud del mondo. All’Internazionale del capitale che da Washington fino a Pechino passando per Roma e Bruxelles, ci vuole schiantare sotto il peso del debito, del super-sfruttamento, della disoccupazione, della concorrenza, della repressione, opponiamo il fronte di lotta internazionale e internazionalista dei lavoratori e degli sfruttati di tutto il mondo.