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[CONTRIBUTO] Difensori della vita? No, assassini. Dalle Americhe alla Polonia, continua la lotta delle donne per il diritto d’aborto

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dalle compagne del Comitato 23 settembre, già disponibile sulla loro pagina (vedi qui):

Difensori della vita?

No, assassini!

Dopo le grandi manifestazioni che hanno percorso tutto il continente Americano contro le nuove leggi restrittive del diritto di aborto, decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in questi giorni in 80 città della Polonia per la morte di Izabel Sajbor, una giovane madre di 30 anni incinta di un feto gravemente malformato, destinato a non sopravvivere.

Alla rottura delle acque aveva chiesto di abortire.

Diritto negato in base della feroce legge polacca che impedisce l’aborto anche nel caso di malattia fetale incurabile.

Si è atteso che il feto morisse spontaneamente.

Ciò ha causato la grave setticemia che ha ucciso la madre.

Da anni le donne polacche sono in prima fila nella lotta per il diritto all’autodeterminazione, per il diritto di non morire di aborto.

Nel corso di questa lotta hanno avuto la capacità di coinvolgere anche ampi strati della popolazione.

Questo non ha impedito al governo, e ai suoi sostenitori clerical fascisti, di mantenere in piedi una legge capestro, perfettamente in linea con i dettami del papa, che ha recentemente definito senza vergogna l’aborto un omicidio (e quindi a rigor di logica, le donne che lo richiedono delle assassine).

Viviamo dunque, se le parole hanno un senso, in una società popolata da assassine, visto che in Italia, prima della legge, si contavano un numero minimo di due milioni di aborti clandestini all’anno e tutt’ora ne vengono praticati circa ottantamila nelle poche strutture che lo consentono.

Quindi, oltre alla discriminazione, allo sfruttamento differenziale, al doppio lavoro domestico ed extradomestico, al sessismo, alla violenza diffusa, al carico della cura legato alla riproduzione della vita e del quotidiano, le donne devono sentirsi umiliate, minacciate, stigmatizzate se osano pensare di scegliere se trasformare le gravidanze in maternità.

Dove si dovrà arrivare per suscitare un moto di coscienza nei portatori di questa logica criminale?

D’altra parte di che stupirsi?

Come abbiamo già più volte ricordato, la guerra contro le donne, il diritto di impossessarsi in ogni modo del loro corpo e del loro lavoro per le necessità economiche generali e per il piacere sociale e individuale fanno parte più che mai della risposta alla crisi messa in atto dai governi e dalle forze che reggono le sorti del sistema capitalistico mondiale.

Una risposta che dobbiamo respingere con decisione al mittente.

Dobbiamo liberarci di tutti i veleni che impestano la vita sociale: l’individualismo, la concorrenza tra donne e tra lavoratori, l’illusione di poterne uscire da sole o sgomitando per avanzare nella scala sociale, scimmiottando comportamenti e logiche di chi è al potere, o semplicemente dobbiamo superare la sfiducia in noi stesse e affrontare la necessità di combattere questo sistema in tutte le forme in cui si manifesta.

Dobbiamo smascherare senza sosta le infinite ipocrisie delle chiacchiere a difesa della “vita” in nome della famiglia, cui si delegano tutti i compiti e i servizi che rivendichiamo come sociali.

Chi si erge a difensore della famiglia finge di non sapere che è sempre di più il luogo dove silenziosamente muoiono le possibilità di autonomia e di autodeterminazione di molte donne.

La famiglia, unica risorsa per alcune, luogo di solitudine e di violenza per troppe.

Dobbiamo richiamare alla responsabilità collettiva tutte le forze che si mettono sul terreno della lotta, ricercare con forza l’unità tra i diversi terreni di lotta, afferrare il filo che lega tutte le oppressioni e confidare nella forza della risposta organizzata e collettiva, nella prospettiva di costruire una società libera da sfruttamento, sessimo e razzismo.

Comitato 23 settembre