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[ITALIA] L’ideologia berlusconiana: una peste per la classe lavoratrice

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Berlusconi, su questo non c’è dubbio, ha segnato pesantemente l’ultimo trentennio di vita sociale e politica in Italia, come parte integrante di un’offensiva internazionale contro la classe lavoratrice avviata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con il reaganismo e il thatcherismo alla fine degli anni ’70. Per un verso è arrivato dopo, per un altro, però, è stato un precursore (azzeccata la definizione “un Trump prima di Trump”). Più delle sue politiche economiche, che non sono state altro che l’applicazione in Italia degli indirizzi dominanti in tutti i paesi occidentali (e oltre, molto, molto oltre – nella Russia putiniana, ad esempio), è da segnalare, e comprendere a fondo, l’affondo ideologico della sua azione confezionato e diffuso con mezzi tecnici e una maestria senza precedenti, che è stato devastante nelle file della classe lavoratrice. Ne abbiamo parlato qualche tempo fa nella nostra rivista “Il Cuneo rosso”, in modo sommario, ma non crediamo inesatto.

Redazione Il Pungolo Rosso

Il berlusconismo,

una peste per la classe lavoratrice

Il berlusconismo è stata la variante italiana di questa velenosa offensiva globale per la “conquista delle menti” [l’offensiva ideologica “neo-liberista” – vedi sotto] che non esita più nemmeno davanti al recupero del colonialismo e del fascismo. Il ruolo del partito del cavaliere nei mass media e nelle altre “istituzioni della cultura” è stato, in questo campo, centrale: sia nello spaccio della ideologia e della morale individualistica (“ognuno è imprenditore di sé stesso”, “ognuno deve imparare a vendersi al meglio sul mercato”1, “ognuno è arbitro delle proprie fortune, se si fallisce, è perché si è dei falliti” – il bocconiano Briatore docet); sia nella messa in stato di accusa di tutta la tradizione del movimento operaio, fino a ingenerare negli appartenenti agli ex-partiti “operai” perfino un senso di colpa nel dichiararsi tali; sia nello spaccio del sessismo con l’indicare alle salariate dov’è il loro “valore aggiunto” da mettere in valore dentro le aziende e sul vasto mercato. Altrettanto fondamentale è stato il suo apparato nel socializzare una visione della “politica” del tutto aliena dal protagonismo delle masse lavoratrici, soppiantato dal miserabile protagonismo dei “personaggi”, dei leader, e nel contrapporre alle “vecchie” forme della attività politica diretta nuove forme mediatizzate di apparente partecipazione, di apparente protagonismo, capaci di assorbire ed esaurire quel tanto di volontà di lotta presente nella classe.

Di Berlusconi e del berlusconismo è stata fatta, per lo più, una critica in chiave liberale, dal punto di vista della democrazia liberale2, oppure si è contestato l’impianto neo-liberista delle sue politiche economiche (peraltro non sempre coerenti, sul lato del capitale). Più di rado se ne è parlato, nella sinistra anti-capitalista, sotto il profilo della profonda trasformazione che ha prodotto nell’ideologia, nel modo di pensare, di vedere, di sentire, nella capacità di immaginare, della (quasi) generalità dei proletari e delle proletarie. Ed è invece proprio su questo versante che sarebbe il caso di indagare più a fondo, perché forse è su questo versante che il danno provocato alla nostra causa è stato ed è più profondo e duraturo. Infatti, nonostante in questi ultimi due-tre anni PdL e Lega siano stati pesantemente ridimensionati sul piano politico ed elettorale, il loro lascito politico, culturale, morale è vivo. Non solo tra i ceti che li hanno tradizionalmente sostenuti, ma anche tra i partiti del centro-sinistra – oramai sempre più berlusconizzati e leghizzati -, dentro i sindacati, che pur quando sono divisi, propagandano unitariamente l’accettazione dei dettami del mercato e dell’aziendalismo, e tra le fila dei lavoratori, che sono maledettamente in difficoltà nel sentirsi classe e nel riconoscere i propri interessi come antagonisti a quelli del capitale.

Attribuire questa infelice condizione dei lavoratori al solo Berlusconi, al solo berlusconismo, farebbe ridere. Perché è evidente che la particolare forza di questo fenomeno è dovuta anzitutto a dei fattori oggettivi che gli hanno spianato la strada.

Tra essi è stata di primaria importanza la lunga fase di deindustrializzazione iniziata negli anni ‘80 e in corso ancora oggi. A partire dalla fine degli anni ’70, padronato e governi hanno perseguito intenzionalmente lo smantellamento della fabbrica di massa, per far scomparire quelli che erano stati i veri e propri centri del movimento operaio, i centri da cui sono partite le più significative lotte degli anni ‘60 e ‘70. Da un lato, questa operazione si è accompagnata al riallineamento dei ceti impiegatizi in funzione anti-operaia (un riallineamento che trova il suo simbolo nella marcia dei 40.000 quadri Fiat) e all’allontanamento di una parte del proletariato dall’impegno diretto nella lotta di classe, dovuto alla paura di licenziamenti ritorsivi, all’impoverimento, alla crescente disoccupazione legata all’introduzione di nuove tecnologie, in poche parole al violento attacco alle conquiste dei lavoratori messo in atto dal capitale per uscire dalla crisi. Dall’altro, s’è accompagnata all’ascesa, al successo del modello Nord Est della “fabbrica diffusa”, che ha contribuito a spargere l’illusione di una emancipazione dalla condizione operaia attraverso la trasformazione/promozione dei proletari in una moltitudine di padroncini, e – più in generale – all’introduzione di nuove modalità di organizzazione dei processi di lavoro, di nuovi contratti di lavoro, di una nuova struttura del salario, che favoriscono la desolidarizzazione tra i lavoratori. Gli impulsi provenienti da queste trasformazioni hanno modificato sul lungo periodo la composizione stessa della classe lavoratrice, spostando i rapporti di forza nettamente a favore del capitale, e facendo venir meno le basi che hanno permesso sia l’affermazione del riformismo che degli stessi movimenti di protesta degli anni ‘60 e ‘70. La fortuna, il trionfo del berlusconismo in Italia, quindi, poggia su complesse trasformazioni oggettive che l’hanno favorita (giusto per non fare di costui un padreterno…) ed è legata alla fortuna del neo-liberismo su scala globale.

Due parole, ora, sul radicamento, sia a livello individuale che collettivo, degli ideali e della morale neoliberisti operato da Berlusconi e dai suoi.

Individualismo

Per il pensiero neoliberista in versione berlusconiana, al pari della sua versione thatcheriana, perseguire in modo calcolato e razionale il proprio interesse individuale non è solo un imperativo economico, è anche e soprattutto un dovere morale. Perché solo dalla presenza di una moltitudine il più ampia possibile di individui del genere la società trae linfa e dinamismo, e riesce a rinnovarsi incessantemente nelle continue sfide che gli individui intraprendenti propongono a sé stessi e agli altri. Tali individui sono, è scontato, gli imprenditori. Ed ecco tornare con Berlusconi, in un altro contesto, il motto con cui De Gasperi prese per i fondelli un bel po’ di contadini: “Non tutti proletari, ma tutti proprietari” (come e dove sono andati a finire i contadini che ci hanno creduto, è noto). “Non tutti proletari (spiantati e sfigati), tutti imprenditori (facoltosi e “figati”)”: questa, in soldoni, la profferta del Cavaliere con il primo e fondamentale spot pubblicitario costituito dalla propria vita personale, accuratamente sottoposta a lifting, si capisce. E se non proprio imprenditori capaci di accatastare fortune simili alla sua, almeno “imprenditori di sé stessi”, gente che sul mercato, senza guardare in faccia a nessuno, e tanto meno agli interessi della collettività, ricerca comunque accanitamente il proprio successo (finanziario), che è la sola e unica misura delle qualità personali. L’incredibile numero di piccoli accumulatori da cui è infestata l’Italia ha fatto da cassa di risonanza a questo messaggio, in particolare tra gli operai, che dai piccoli padroncini non sono certo separati da una muraglia cinese. E poiché neppure nel mitico Nord Est, e neppure nei mitici anni ’90, era possibile la trasformazione in massa dei proletari in capitalisti, questa ideologia della lotta di tutti contro tutti, dell’homo homini lupus (ma propagandata da una jena ridens), ha trovato applicazione sui luoghi di lavoro nella ricerca esclusiva di benefici individuali. E in questo modo ai meccanismi oggettivi di atomizzazione della classe, si sono aggiunti quelli soggettivi.

Anti-comunismo

Da molti, anche a sinistra, l’anti-comunismo del Cav. è stato visto come un’ossessione parossistica. Viceversa, c’è stato metodo in quell’apparente “follia” (o fobia). Perché l’inesausta carica dei suoi giornali e del suo impero mediatico contro tutto ciò che sapesse lontanamente di “comunismo”, non nel senso del comunismo di Marx o di Lenin, ma nel senso della limitazione, anche minima, dei poteri insindacabili dei padroni, dei proprietari, dei privilegi della proprietà privata, del denaro accumulato, del profitto, serviva (ed è servita realmente) a delegittimare alla radice la prospettiva di una forma di società fondata sulla soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dei risultati del lavoro, e insieme ogni forma di solidarietà, di unione, di azione di lotta comune dei non-proprietari, degli spossessati, catalogata come un vecchio arnese da rottamare, così come il concetto, l’idea stessa, di classe.

Sessismo (neo-patriarcalismo)

Attraverso i suoi canali tv e il suo comportamento pubblico, facendo di sé stesso un modello da imitare, Berlusconi è stato anche il principale propagandatore del neo-patriarcalismo, della ri-sottomissione della donna in versione neoliberista.

La mercificazione e la riduzione della donna alle sue funzioni sessuali non è certo un’esclusiva del berlusconismo. A livello mondiale questa funzione è stata svolta direttamente dall’industria della pornografia, indirettamente dall’industria massmediatica, che ha mutuato l’immaginario degradante della prima fino a normalizzare la rappresentazione pornografica della donna, delle donne, del rapporto uomo/donna. Tuttavia nel caso italiano Berlusconi e il berlusconismo hanno avuto un ruolo di primaria importanza nell’abbassamento graduale della soglia di accettazione della mercificazione dei rapporti uomo/donna, spostandola di continuo in giù. I programmi commerciali delle televisioni Mediaset e (da un certo punto) delle televisioni di Stato hanno infatti contribuito in maniera scientifica a 1) diffondere l’ideale della donna-velina, ossia l’idea che il ruolo sociale della donna sia riducibile alla sua funzione di oggetto sessuale3; 2) diffondere l’idea che le donne possono realizzarsi pienamente ed “emanciparsi” economicamente, socialmente, politicamente solo sfruttando il proprio “capitale erotico”, il proprio corpo e il proprio comportamento secondo canoni iper-sessualizzati, mettendosi “a disposizione” della “comunità dei maschi”, rendendosi “appetibili” attraverso l’estrema cura per il loro corpo, l’investimento su di esso, la sua valorizzazione secondo i canoni imposti per trasformarlo in merce sessuale da far circolare “liberamente” sul mercato.

Lo spaccio di questa droga è servito anzitutto a rimettere le donne “al loro posto” ben al di là della villa di Arcore, nella struttura gerarchica della società, a sospingerle a una nuova forma di passività politica dopo la crescente partecipazione alle lotte sociali del secondo dopoguerra. L’operazione è stata condotta con palesi volgarità, ma anche con una certa abilità, riuscendo a piegare a questi fini il linguaggio e l’immaginario dell’emancipazione femminile dal patriarcalismo tradizionale, e ad asservirlo alle necessità di dominazione del patriarcalismo collettivo.

Questa propaganda è servita al tempo stesso a svalorizzare le donne in quanto lavoratrici e perciò, attraverso la loro svalorizzazione, a svalorizzare l’intera forza lavoro. L’ideologia neoliberista e la sua versione berlusconiana sono riuscite così, almeno in parte, a neutralizzare e perfino a rovesciare la valenza emancipatrice dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro – un processo che nel mentre mercifica la donna in quanto forza lavoro, pone comunque le condizioni materiali per la sua liberazione dai vincoli di dominazione posti dalla società patriarcale.

Ma questo incessante battage è servito al tempo stesso a rimettere anche gli uomini al loro posto, chiamandoli a partecipare in prima persona, direttamente, fattivamente, alla risottomissione della donna. La mercificazione del corpo delle donne ha infatti come corollario la trasformazione del rapporto uomo/donna in un processo di rinnovata subordinazione in cui si riproducono i rapporti che intercorrono nel mercato. E si è trattato, evidentemente, di un processo che ha attraversato tutte le classi sociali, legittimando questi comportamenti anche tra i lavoratori e le lavoratrici. Dorme chi non vede che tuttora la violenza fisica e psicologica sulle donne, che a simili dinamiche è legata intimamente, continua ad essere molto diffusa. Non solo nel “profondo Sud”, anche nel profondo Nord, dove – tra l’altro – in questi ultimi decenni è molto cresciuta la prostituzione di strada e sta normalizzandosi lo stupro etnico su minorenni straniere.

Serve intensa cura disintossicante. A partire da una nuova sollevazione in massa delle donne: lotta, lotta, lotta, non smetter di lottare! E la riscoperta che c’è una morale capitalistica e c’è una nostra morale (appunto: di lotta). Di lotta a tutto ciò che degrada le donne e gli esseri umani.

Note

1Questa ideologia si adatta bene ai nuovi contesti lavorativi, dove si insegna che per conquistarsi un posto di lavoro a tempo indeterminato è fondamentale pensare solo a sé stessi, leccare i piedi ai dirigenti e al padrone e, se del caso, fare il delatore.

2Cfr., ad esempio, P. Flores d’Arcais, Fascismo e berlusconismo, su “Micromega-on line”, 5 settembre 2013.

3 Nella morale sessuale neo-liberista il ruolo riproduttivo delle donne passa in secondo piano. Rispetto al sistema di dominio binario proprio del patriarcalismo individuale delle società pre-capitaliste e dello stesso patriarcalismo borghese, che riducevano le donne sia al loro ruolo riproduttivo che al ruolo di oggetti sessuali, è un salto di qualità le cui cause sono da ricercarsi anche nella tendenza a distruggere, se possibile, ogni forma di socializzazione, che caratterizza la prospettiva neo-liberista.

4Nella Unione europea a 15 la quota-salari sul pil è scesa dal 1980 ad oggi dal 68% al 58% (dato fornito da L. Gallino su “la Repubblica” del 20 maggio 2014), un po’ meno che nell’insieme dei paesi Ocse, dove i 10 punti sono stati persi tra il 1999 e il 2011. Questo scarto è alla base dell’insistenza della Trojka sulle “riforme” anti-operaie.

Sull’offensiva ideologica “neo-liberista” (di cui il berlusconismo è una variante)

Il quadro dell’attacco capitalistico sarebbe del tutto incompleto se lasciassimo da parte l’offensiva ideologica in grande stile lanciata dalla classe capitalistica in questi decenni, che ha plasmato, più di quanto non abbiamo voluto credere finora, mente e sentimenti di due generazioni di salariati/e, e ha via via indebolito, sfilacciato, disperso la coscienza di classe riformista delle vecchie generazioni operaie. Non è il caso di idealizzare l’operaio o il bracciante del PCI anni ’50-’60, protagonisti di quei duri scontri con il padronato e con i governi democristiani a cui tanto si deve dei passi in avanti fatti dalla condizione operaia nel dopoguerra e del ciclo di lotte, non solo operaie, di fine anni ’60- inizio anni ’70, perché la loro ideologia era nonostante tutto imbevuta di nazionalismo (mediato dal resistenzialismo); la loro psicologia era strutturata, nonostante tutto, in modo gregario (attraverso il culto acritico del capo, Stalin, Togliatti o altri che fossero); la loro visione della politica è stata via via conformata da una superstiziosa aderenza alla legalità, alle elezioni, alla democrazia; la loro visione dei rapporti tra i sessi era spesso più prossima a quella del tradizionalismo cattolico che al comunismo. Ma, pur zavorrati da simili pesanti tare, questi proletari avevano un sentimento forte degli interessi unitari della classe lavoratrice, della propria personale dignità come produttori, del ruolo determinante della classe lavoratrice nella società, e della necessità del conflitto organizzato per far valere i propri bisogni e i diritti violati. Tutti elementi che è molto raro trovare oggi non solo nei lavoratori o nelle lavoratrici “medi”, ma anche in quelli/e più attivi/e.

Se è assodato che, soprattutto nei periodi di bassa conflittualità, l’ideologia dominante in tutte le classi sociali, incluso il proletariato, è quella della classe dominante, questa verità non può essere usata per scansare la fatica di analizzare cos’è avvenuto, e cercare di identificare cosa i piccoli nuclei di comunisti in campo possono fare per dare una mano a risalire la china della paurosa deriva ideologica in atto.

Negli ultimi decenni la punta di lancia dell’offensiva capitalistica è stata l’ideologia “neo-liberista”, una riverniciatura estremizzata e semplificata della storica dottrina liberale, secondo cui l’individuo ha un ruolo centrale nella vita economica e sociale delle nazioni e del mondo, nel promuoverne il progresso materiale e culturale. Naturalmente, poi, non si tratta affatto di qualunque individuo, di tutti gli individui, bensì soltanto dell’individuo proprietario dei mezzi di produzione, dell’individuo-che-intraprende, dell’individuo capitalista, attore sulla scena del mercato. Secondo tale ideologia, il mercato ha il magico potere di far coincidere gli interessi privati dei singoli individui, i loro guadagni privati, con l’interesse pubblico e l’utilità pubblica. Ma ha questo potere soltanto se vieneassicurata la massima libertà di movimento e di azione agli individui-proprietari-di-capitale, perché più è garantita la loro libera competizione sul mercato, più è assicurata la massima utilità generale, il massimo benessere per tutti. Per contro, ogni limitazione di tale libertà individuale che non sia strettamente necessaria non potrà che avere, nel tempo, esiti disastrosi per lo sviluppo economico-sociale delle nazioni.

La fanatica riproposizione di queste tematiche, di questa visione del mondo, ha tratto un impulso formidabile dal crollo dei regimi del “socialismo reale”. Sulla base delle macerie di questi regimi1 e della contemporanea impasse-implosione-esplosione di molti processi di indipendenza nazionale (prendiamo come esempi dei tre tipi Cuba, Algeria, Jugoslavia) il modello di società “neo-liberista” è stato presentato e spacciato come l’unico possibile, l’unico in grado di funzionare. “Non c’è nessuna alternativa”: la formula coniata dalla Thatcher è stata martellata con furia ossessiva per far rientrare nel muro i chiodi sporgenti. Sicché un po’ alla volta questa marea nera di pensieri reazionari è tracimata dagli strati non proletari nel campo proletario, conquistando l’egemonia, non senza resistenze, anche dentro il movimento operaio organizzato e la sinistra istituzionale. E poi questa egemonia ha reso sempre più difficile “immaginare” non solo rapporti sociali, ma perfino rapporti di forza tra le classi, diversi da quelli attuali, mandando fuori corso talvolta anche nella “sinistra estrema” la prospettiva del socialismo, della rivoluzione socialista.

Di conseguenza due generazioni di proletari/e sono cresciute “de-politicizzate”, anzi imbevute di una visione del mondo e di ideali borghesi, perdendo via via il legame con il passato della classe, e la memoria di ciò che sono state in Italia, in Europa, nel mondo le epiche battaglie dei proletari contro i capitalisti, contro i governi dei capitalisti e il sistema sociale capitalistico. Il revisionismo storico anti-operaio prima, il vero e proprio oblio della lotta di classe anti-capitalista, poi, hanno preparato il terreno ad una sorta di fatalistica accettazione del capitalismo, pur con tutte le sue contraddizioni e vergogne. In questo clima i salariati e i precari più giovani hanno introiettato in questi decenni l’inevitabilità della propria soggezione al capitale, l’inevitabilità della riduzione del “valore del lavoro” a qualcosa di marginale se non di irrilevante. Nel radicare l’inevitabilità di una simile resa ai poteri dominanti è stata fondamentale in Italia, specie tra gli operai, la campagna politica contro il “terrorismo” delle Br, perché è servita a schierare la grande maggioranza dei lavoratori più combattivi, per non dire degli altri, con lo stato, e quindi con il capitale. Uno schieramento ribadito in chiave sciovinista-imperialista dalle campagne di guerra e razziste contro il “terrorismo islamico”, l’islamismo, gli immigrati arabo-“islamici”, i rom, le popolazioni immigrate in blocco.

1Per i comunisti internazionalisti il tracollo del 1989 ha avuto un effetto chiarificatore “liberatorio” a misura che i discendenti dello stalinismo hanno fatto cadere definitivamente anche la forma più blanda di “rivendicazione” della prospettiva socialista (fino a maledirla), ma ha avuto l’effetto diametralmente opposto, depressivo, sugli operai, i lavoratori, i compagni di base dei partiti stalinisti, quasi sempre gli elementi più combattivi del movimento proletario.