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[CONTRIBUTO] Il capitalismo non sarà mai ecologico

Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Il capitalismo non sarà mai ecologico

– Gilles Dauvé

[nella foto: bambino lavoratore al lavoro in una miniera di coltan]

Non poche cose ci dividono, sul piano teorico e politico, da Gilles Dauvé, ma questo non ci impedisce di riprendere qui un suo pregevole scritto sul perché è strutturalmente impossibile che il capitalismo diventi, come oggi pretende, ecologico. [Questa penetrante analisi ha un sottotesto fatalistico nel quale sembrano scomparire gli antagonismi sociali, e la possibilità di rovesciare la mega-macchina impazzita.]

http://illatocattivo.blogspot.com/2021/10/il-capitalismo-non-sara-mai-ecologico.html

«All’interno del discorso politico contemporaneo, l’ecologia è diventata ormai onnipresente: transizione energetica, capitalismo verde, riformismo ecoresponsabile… Ma se in fondo nulla cambia, se i piccoli progressi compiuti ritardano appena il montare dei pericoli, è perché l’incompatibilità tra ecologia e capitalismo non dipende dalla miopia dei suoi dirigenti: più semplicemente, essa è intrinseca alla natura stessa di questo sistema»

1. Un’ineluttabile assenza di limiti

Definita «industriale» oppure – oggi – «postindustriale», la società moderna è fatta di imprese, ciascuna delle quali è un polo di valore che cerca di accrescersi mettendo i sistemi industriali al proprio servizio. Il ricercatore può appassionarsi alla scoperta di un nuovo processo di fabbricazione, e l’ingegnere adorare costruire dighe, ma i loro progetti diventano realtà solo se coincidono con l’interesse dell’impresa che li impiega: vendere un prodotto competitivo sul mercato, accumulare profitti, reinvestirli…

« […] lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva. […] Accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzione, in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXII, p. 727-31).

La prova che viviamo innanzitutto in un mondo capitalistico e non industriale, è che l’ipertrofia industriale, lungi dall’essere un fenomeno autonomo, è sottomessa alle esigenze della valorizzazione del capitale. Poco importa che una fabbrica di automobili, una miniera o un’acciaieria siano ancora funzionanti: se non sono più redditizie, le si chiude. Il borghese non ha il diritto di dormire sugli allori, e un capitalismo stazionario è sinonimo di declino. Da duecento anni, la «megamacchina» si rinnova incessantemente per costruzione, autodistruzione e ricostruzione… Conosciamo il destino della Rust Belt americana, che non significa d’altronde la fine dell’industria in quella regione, da cui proviene ancora il 40% della produzione manifatturiera del paese.

Tecniche, sistemi produttivi, siti di produzione ne sostituiscono altri meno performanti rispetto alla concorrenza. Gravato dalla sua inevitabile pesantezza materiale, il capitalismo sogna di essere finanziario, virtuale, digitalizzato, ma non esisterebbe senza i proletari che trasformano le centinaia di milioni di tonnellate di minerali, legno, acciaio, cemento, plastica… indispensabili alla produzione degli schermi su cui scorrono le linee di credito.

Ridurre i costi di produzione è una priorità permanente per i borghesi: attraverso l’intensificazione del lavoro dei proletari e, se necessario, attraverso l’esaurimento delle basi materiali della produzione. Infaticabile costruttore e distruttore, divoratore di risorse e da sempre fonte di inquinamento, il capitalismo ignora per definizione la sobrietà. Già intorno al 1800, operai e popolazioni subivano la tossicità delle manifatture, nefasta per la loro salute. Da allora, la scala delle nocività ha subito un cambiamento.

Austero o prodigo, il borghese non è necessariamente avido per se stesso, ma è al servizio di questa logica. Il solo profitto «ragionevole» è quello che favorisce al massimo la sua impresa. Le migliori intenzioni sociali o ambientali del più benevolo dei padroni sono secondarie quando la concorrenza infuria.

La «crescita» è il nome assunto dal «progresso» applicato all’economia. Dalla macchina a vapore di James Watt all’elettronica della Silicon Valley, la fede nel progresso è essenziale e necessaria alla borghesia e a coloro che essa trascina nella sua scia. Ma tale fede non diventa forza materiale che facendo tutt’uno con l’imperativo di accumulare valore.

2. Un mondo di imprese

Non soltanto il modo di produzione capitalistico promuove l’ipersviluppo di un sistema industriale devastante, ma sarà sempre riluttante ad assumersi la responsabilità delle devastazioni che provoca.

Il mondo in cui viviamo non può essere gestito alla maniera di un’unica impresa, che amministri la Terra tendendo conto dell’ambiente planetario – come un solo capitale che governi il patrimonio dell’umanità.

Una simile multinazionale mondiale è un’utopia. All’indomani della Prima Guerra Mondiale, Bucharin non fu il solo ad avanzare l’ipotesi (che considerava improbabile) di un «piano razionale dal punto di vista del capitale», messo in atto da una classe capitalistica unificata. Al di là degli ostacoli geopolitici, in ogni caso insormontabili, la logica del modo di produzione capitalistico rende un simile «trust» strutturalmente impossibile. Chi dice mercato (nazionale o mondiale) dice concorrenza.

Polo di valore alla ricerca della propria valorizzazione, ogni impresa è responsabile soltanto di se stessa e del suo bilancio. Essa funziona allo stesso modo di un organismo, con un interno distinto dall’esterno, ma poroso e che vive di questa sua porosità. Vi entrano investimenti, materie prime, salariati, installazioni tecniche; e ne escono merci che generano denaro, che l’impresa integra e accumula. Essa è naturalmente in contatto permanente con il resto della società, ma è responsabile unicamente dei suoi input e output, non deve nulla a ciò che la circonda. Le è sufficiente rispettare le leggi (in particolare il diritto del lavoro – che non è sempre esistito, e in molti paesi esiste solo sulla carta) e pagare le imposte. Soddisfatte queste due condizioni, tutto il resto non la riguarda. «Non devo niente al pubblico», proclamava, nel XIX secolo, il grande capitalista statunitense J. P. Morgan. La salute del lavoratore salariato, la sua famiglia e la sua vecchiaia, riguardano il padrone solo nella misura in cui queste influiscono sulla sua produttività e sulla futura generazione di lavoratori. Allo stesso modo, fino a quando non incorre in qualcuna delle sanzioni previste dalla legge, l’impresa può ignorare ciò che commette di negativo all’esterno dei suoi muri.

Affinché si prendessero in considerazione queste «esternalità negative», è stato necessario che la società capitalistica nel suo complesso cominciasse a soffrire per i danni provocati dalle singole imprese all’ambiente circostante. Diventava urgente comparare i costi degli investimenti necessari a contenere i riscaldamento globale, con i costi delle potenziali perdite subite in caso di inazione. Ma ciò che vogliono le imprese, è soltanto raggiungere una soglia delle emissioni di CO2 che sia, come ammette un esperto, «economicamente ottimale».

La borghesia non è né monolitica né cieca, e non manca di think tanks che l’aiutino ad affrontare i suoi conflitti e le sue contraddizioni. Essa ha tuttavia una grande difficoltà ad agire in funzione di un interesse «di classe» collettivo, come dimostra la difficoltà con la quale Roosevelt riuscì a imporre il New Deal: da questo punto di vista, lo Stato gioca un ruolo indispensabile, ma non comanda; esso si limita a regolare e regolamentare. Anche qualora tutti i borghesi beneficiassero delle misure drastiche attuate per fronteggiare il problema climatico, ciascuna impresa sarebbe riluttante ad aumentare i suoi costi di produzione (direttamente o in imposte) in vista di un beneficio che riguarderebbe innanzitutto la classe dei capitalisti nel suo insieme. Profitto individuale (essendo qui l’individuo in primo luogo l’impresa) e cooperazione borghese raramente vanno d’accordo: per quanto possa essere «ecologista», un padrone non può assumersi il rischio di ridurre la propria competitività.

3. Un avvenire cupo

Quadruplicazione del trasporto internazionale di merci da qui al 2050, raddoppio del traffico aereo nei prossimi decenni (fatto salvo l’«effetto Covid», oggi difficile da valutare), esplosione del turismo, aumento del 100% della produzione mondiale di vestiti dal 2000 ad oggi (al prezzo di un enorme consumo di acqua e di un uso massivo di pesticidi), incremento costante della produzione di plastica, decollo del 5G, enorme consumatore di energia… la lista delle «crescite nocive» è infinita. Il digitale richiede metalli trasformati da un’industria divoratrice di risorse energetiche; il suo utilizzo assorbe tra il 7 e il 10% dell’elettricità prodotta a livello mondiale (le cifre variano, ma la crescita accelera), e sembra appurato che le tecnologie dell’informazione contribuiscano al cambiamento climatico nella stessa misura del trasporto aereo. «In materia di distruzione, non abbiamo ancora visto niente» (Philippe Bihouix). E non sarà la crisi da Covid-19 a invertire la tendenza. L’elettromobilità complicherà lo sfruttamento delle risorse naturali e le sue conseguenze senza alleggerirli, non foss’altro che per l’utilizzo crescente delle terre rare, la cui estrazione e raffinazione richiedono processi estremamente inquinanti. Ma che importa! L’automobile «a benzina o a gasolio» ha fatto il suo tempo, l’evoluzione verso l’elettrico sembra un fatto acquisito. L’Irlanda si vanta di poter raggiungere le «zero emissioni» entro il 2050, grazie a due milioni di auto elettriche. Tutto dipende da come si fanno i calcoli: non includendo la totalità delle emissioni di gas-serra a monte della produzione e a valle dell’uso, il conducente di una Tesla è autorizzato a definirsi «ecologico».

Spostarsi, per l’uomo, è una necessità e un piacere, ma il capitalismo fa della mobilità un bisogno e un concetto specifici. Tutto deve circolare, all’interno e all’esterno della produzione, al lavoro e fuori dal lavoro. La mobilità-individualità è poter ascoltare la «mia» musica in ogni momento, camminando per strada, sull’autobus o mentre aspetto un amico… grazie a un apparecchio portatile che si sposta con me. È anche la libertà di viaggiare su un’automobile personale: una società di individui organizzati in famiglie (certamente diverse da quelle di un tempo) privilegia il veicolo individuale e/o familiare. In presenza o meno di autobus a «zero emissioni».

Quanto alla durevolezza, essa è in contrasto con l’obsolescenza che è parte del funzionamento e dell’utilizzo obbligato degli oggetti, in particolare degli apparecchi elettronici. Recupero, condivisione, accesso senza proprietà, riciclo, laboratori cooperativi, baratto… vengono esaltati da gente che generalmente non ha nulla da obiettare all’arrivo della «fibra». Al 4G deve succedere il 5G, indispensabile alla diffusione di oggetti comunicanti connessi in rete, al cloud computing, nel quadro dell’ambiente domotizzato di una smart city. Aspettando il 6G. E coloro che criticano questa evoluzione, lo fanno soprattutto per i suoi effetti sulla salute o per il suo costo ecologico, raramente in ragione del suo utilizzo, del bisogno che essa soddisfa e rinnova: essere connessi a tutto e a tutti ad ogni istante in un secondo. Tecnologia che risponde al bisogno di socializzazione di un «uomo moderno» mai così individualizzato.

Di conseguenza, nessuno immagina seriamente che nei decenni a venire una flotta di porta-containers ridotta della metà o di un terzo trasporterà un numero cinque o dieci volte inferiore di iPhone, di Corolla, di Playmobil e di Nike rispetto a oggi. La superiore produttività, o supposta tale, dell’eolico rispetto alle centrali nucleari non arresta lo sviluppo delle infrastrutture dell’energia fossile, la posa di nuovi oleodotti, la costruzione un po’ ovunque di tangenziali e autostrade, o la costruzione di centrali a carbone, più di quanto metta un freno alla produzione crescente di plastica, il cui consumo è raddoppiato negli ultimi quindici anni, e che proviene per la maggior parte dall’industria petrolchimica. Anche se, com’è probabile, il solare e l’eolico diventeranno in qualche anno meno costosi dei combustibili fossili, l’innegabile prosperità del mercato delle energie rinnovabili non modifica più di tanto il dato climatico.

Tra la «mitigazione» (la speranza di rallentare sensibilmente il surriscaldamento climatico) e l’adattamento a un futuro sul quale si rinuncia ad agire, è la seconda via ad avere la priorità. La classe dirigente non ha alcuna vocazione a preparare l’avvenire a medio o lungo termine. Nemmeno il proprio. Roosevelt rispondeva – alla sua maniera, ma ne esistevano altre – ai problemi del suo tempo, ma né nel 1932 né nel 1944, si preoccupava dell’anno 2000 o 2050. La storia del XX secolo, imprevedibile per Marx nel 1883 come per Rosa Luxemburg nel 1919, dimostra che mai i borghesi dei diversi paesi hanno anticipato il futuro, i progressi tecnici e sociali, così come le catastrofi. Prima Guerra Mondiale, crisi del 1929, nazismo, Seconda Guerra Mondiale, stalinismo… sono stati e sono tuttora attribuiti dagli esponenti del pensiero dominante a scorie del passato, disfunzioni, aberrazioni, a una sorta di malattia dell’umanità, piuttosto che alla natura del capitalismo, che si suppone indefinitamente perfettibile. Lo stesso accadrà per la crisi climatica.

4. Quale crisi?

«Se il capitalismo ha preso un nuovo slancio dopo il 1980, la sua vittoria non è stata che apparente. La crisi attuale rivela che il boom di fine secolo non aveva dato una risposta al problema degli anni ‘70: sovracapacità, sovrapproduzione, sovraccumulazione e caduta della redditività. Gli incrementi di produttività erano risaliti negli anni ‘90, in particolare negli Stati Uniti, grazie all’informatizzazione, all’eliminazione dei settori industriali poco redditizi e all’investimento in fabbriche a basso costo di manodopera in Asia. Ma se l’alleanza del computer e del container era riuscita a comprimere e a dislocare il lavoro, essa aveva intaccato solo in superficie le cause della caduta dei profitti. Quarant’anni più tardi, le deficienze degli anni ‘70 persistono, mascherate dai profitti di una minoranza di società (che un tempo avremmo chiamato monopoli od oligopoli). E del settore finanziario.»

Così scrivevamo nel 2017 (cfr. De la crise à la communisation, Entremonde, Ginevra 2017).

In questa situazione generale di deficit di redditività, gli investimenti necessari alla «mitigazione», ammesso che essi vengano attuati, aggraverebbero la crisi contemporanea, nonostante i benefici che ne trarrebbe una parte della borghesia. Le cifre in gioco sarebbero incommensurabilmente più grandi di quelle mobilitate nel 2008 per il salvataggio delle banche.

«Mille miliardi per il clima», raccomandano Jean Jouzel e Pierre Larrouturou (Pour éviter le chaos climatique et financier, 2017), cercando di dimostrare che una necessaria politica verde sarebbe non solo possibile, ma socialmente benefica (creazione di un milione di posti di lavoro, miglioramento dei servizi pubblici [in riferimento al contesto francese, ndt]) e, vantaggio supplementare, un buon viatico per l’economia e la competitività del paese… e dell’Europa.

Questo significa attribuire al modo di produzione capitalistico più di ciò che ha interesse a fare ed è capace di fare. In un futuro prevedibile, non ci sarà alcun keynesismo verde così come non ci sarà alcun keynesismo sociale. Non aspettiamoci una mobilitazione di risorse paragonabile a quella degli Stati Uniti dopo Pearl Harbor, quando una parte enorme del budget statale andò a finanziare l’economia degli armamenti, con lo Stato federale che amministrava la produzione di aerei come quella di munizioni, requisendo beni privati e imponendo contratti tanto al capitale che al lavoro. In meno di un anno, l’industria si riconvertì su una scala senza precedenti, con Chrysler che fabbricava fusoliere, Ford bombardieri, General Motors carri armati etc. Ridurre fin da oggi le emissioni di gas-serra del 5 o del 10% all’anno, richiederebbe uno sforzo che non trova paragoni, una centralizzazione del potere decisionale, un «ministero della transizione verso un futuro a bassa intensità di carbonio», capace di gestire «un’economia pianificata dell’energia» (Andreas Malm) e, soprattutto, capace di andare oltre il quadro nazionale – senza di che la sua azione resterebbe priva di effetti. Basta enumerare queste condizioni per constatare che sono irrealizzabili. Nel 1941, gli Alleati si mobilitarono contro la Germania e il Giappone. Dopo Pearl Harbor, per il big business americano era inaccettabile lasciare il controllo del Pacifico e di territori ricchi di preziose risorse economiche e minerali in mano ai giapponesi. La minaccia era precisa e le sue conseguenze immediatamente concrete.

Ottant’anni più tardi, il capitalismo statunitense, europeo, cinese o «mondializzato», non scenderà in guerra contro la CO2. L’economia capitalistica funziona per garantire la remunerazione del capitale: essa non conosce alcuna «emergenza climatica», così come non conosce l’urgenza di dare lavoro a milioni di disoccupati.

Al di là dell’Atlantico, una tendenza del Partito Democratico, insieme a diverse organizzazioni non governative, propugna un Green New Deal e chiede che gli Stati Uniti, entro il 2030, si dotino di una rete elettrica completamente alimentata da fonti rinnovabili, e costruiscano infrastrutture «verdi» su larga scala. I sostenitori di questo «nuovo» New Deal dimenticano che ci sono volute la pressione della crisi del 1929 e un’ondata di scioperi e occupazioni di fabbriche, per dare a Roosevelt i mezzi necessari a imporre alcuni vincoli alla borghesia: moderare il peso della finanza e accettare la presenza dei sindacati all’interno delle aziende. Ma non si costringeranno i capitalisti a rinunciare alla massima produttività di fronte alla concorrenza, perché qui non si tratta più del rapporto (negoziabile) tra salario e profitto, ma di uno dei fondamenti del modo di produzione capitalistico. Una «ecologizzazione» del mondo è politicamente impossibile, nella misura in cui non sarebbe redditizia. Indubbiamente, negli Stati Uniti e altrove, verrà realizzata una frazione di questi vasti programmi. Ma i paladini della difesa del clima sapranno fare molto meglio degli scettici alla Trump? Si cercherà invano di ricordare quale ambiziosa politica verde abbia condotto Obama, che, nel 2014, si felicitava del fatto che il suo paese fosse divenuto il primo produttore mondiale di idrocarburi.

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È legittimo chiedersi quali frazioni della borghesia abbiano interesse a rendere il capitalismo «verde»: i petrolieri hanno ancora un grande peso; altri settori, legati al capitalismo «verde» accrescono la loro influenza. Tuttavia, il punto non è sapere quando il modo di produzione capitalistico cesserà di nuocere agli equilibri naturali – ne è incapace – ma se manterrà o restaurerà l’equilibrio sociale e politico necessario alla perpetuazione della borghesia.

* Il presente articolo è il II° episodio della serie: “Pommes de terre contre gratte-ciel”, apparso su ddt21.noblogs.org, novembre 2020