È successo il 26 ottobre, ma la notizia ci giunge ora. Nella comunità rurale di Fanaye, nel nord del Senegal, una protesta della popolazione esasperata dalla cessione delle proprie terre è finita in modo tragico, con una folla che tentava di impedire una riunione delle autorità locali favorevoli al progetto e l’intervento della polizia: il bilancio è di un morto e 21 feriti, molti in condizioni gravi. La notizia è citata sul sito del Conseil National de Concertation et de Coopération des Ruraux, organizzazione nazionale contadina delSenegal (www.cncr.org); a noi arriva attraverso la rete Via Campesina.
Segno che la tensione cresce, e anche la mobilitazione di reti contadine: a Sélingué, in Mali, dal 17 al 21 novembre si è tenuta una Conferenza internazionale contro il furto di terre promossa da Via Campesina e dal Coordinamento nazionale delle organizzazioni contadine del Mali. È là che i rappresentanti delle organizzazioni italiane Terra Nuova e Crocevia hanno potuto sentire direttamente dalle organizzazioni contadine interessate cosa stia succedendo a Fanaye. «La cessione di oltre 20 mila ettari a una società a partecipazione italiana è alla base della rivolta della comunità rurale del distretto. L’ampiezza del malcontento è parsa evidente nel corso di una marcia di sensibilizzazione compiuta da Dakar fino a Fanaye, in cui il numero dei partecipanti cresceva sensibilmente a ogni tappa. La tensione poi è esplosa durante la riunione del Consiglio Rurale, il 26 ottobre, perché le organizzazioni contadine lo considerano responsabile della cessione delle terre», ha detto all’assemblea Diery Gaye, rappresentante del Cncr.
Ora il progetto, che era destinato alla produzione di biocarburanti, è sospeso. Ma «non abbiamo dubbi che si tratti solo di una tregua: quando le acque si saranno calmate, il progetto sarà portato a compimento. Al massimo, ne sarà modificata la localizzazione» ha detto Ndiakhate Fall, rappresentante della Federazione contadina del Senegal, a Nora McKeon di Terra Nuova. Fall specifica: «In Senegal è prassi amministrativa che il ministero delle finanze recepisca una certa somma di denaro in fase di accoglimento di un progetto. Una sorta di “caparra” dalle società interessate». Accettato l’anticipo, è improbabile tornare indietro. Ciò che è evidente, però, è che le comunità locali non trarranno benefici da questa o altre compravendite, mentre i profitti delle aziende aumenteranno.
«Laddove il landgrabbing colpisce, si assiste sempre a una rimozione forzata delle produzioni locali, modificando profondamente il sistema agrario e riducendo drasticamente il circuito commerciale dei prodotti alimentari nel mercato interno. Tutto ciò mina profondamente sia l’agricoltura familiare sia l’allevamento, basato tradizionalmente sul pascolo nelle terre comuni», fanno notare Terra Nuova e Crocevia. E poi, i conflitti sull’uso delle terre agricole diventano rapidamente violenti: «E le responsabilità sono di tutti i paesi industrializzati, Italia compresa». Molte aziende italiane infatti si sono buttate nella corsa alla cosiddetta «mobilità sostenibile», che si risolve poi nell’aumentare l’uso di agrocarburanti, e guardano ai territori dei paesi del sud del mondo per quelle piantagioni, come la jatropha, che «promettono di salvare la terra dal riscaldamento climatico. Ma non dalla fame».
Gli effetti disastrosi del landgrabbing, intanto, si aggiungono alla riduzione dei terreni agricoli in qualità e quantità a causa dei cambiamenti climatici. Terra Nuova e Crocevia sono in contatto permanente con le organizzazioni contadine africane come il Cnrc e il Roppa (Rete delle organizzazioni contadine dell’Africa occidentale) e «sono impegnate a valutare le responsabilità italiane di un fenomeno che ha conseguenze sociali e ambientali durissime». da il manifesto del 25.11.2011 di Giorgia Fletcher