Cobas

[ITALIA] Lavoratori e studenti uniti nella lotta: contro una scuola di sceriffi, caporali e poliziotti

Riceviamo e pubblichiamo la comunicazione riportata più sotto, ricevuta da un professore del liceo Pasteur di Roma, dove poche settimane fa siamo stati invitati per intervenire ad una riuscita lezione con gli studenti (nell’ambito del progetto scolastico intitolato “Guerra e lavoro”) sulla condizione del lavoro e dei lavoratori – specialmente immigrati – in Italia.

In particolare, i nostri lavoratori dalle fabbriche, dai magazzini e dalle campagne hanno parlato del caporalato e della lotta a questo fenomeno di sfruttamento e oppressione della classe lavoratrice, riscontrando il grande interesse dei giovani presenti sia verso il fenomeno del caporalato e le conseguenze del suo sviluppo, sia verso le prospettive aperte dalla lotta degli sfruttati agli sfruttatori per determinare un cambiamento ben oltre il pur importante miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei salariati: un cambiamento radicale dell’intera organizzazione del lavoro alla base della società.

Questo l’articolo che pubblicammo dopo il nostro intervento al Pasterur (rettificato nella sua prima versione, per via di un errore prontamente corretto appena segnalatocelo):

https://www.sicobas.org/news/3318-roma-lavoratori-e-studenti-uniti-nella-lotta-assemblea-al-liceo-pasteur

Le righe in basso, oltre ad esprimere una posizione critica – cui ci associamo – contro ogni deriva autoritaria e reazionaria nella scuola pubblica, dimostrano – con le parole di un lavoratore – quanto sia oggigiorno difficile per un insegnante educare liberamente i propri allievi a una concezione del mondo adatta a individuare autonomamente e comprendere criticamente gli epocali cambiamenti storici in corso, spiegando agli studenti i fatti che accadono intorno a loro anche dal punto di vista della classe sfruttata e non necessariamente solo da quello della classe dominante (che dalla sua ha già governi, media, forze dell’ordine, intellettuali et alia).

Ovvero, il caso (tra gli altri) del liceo Pasterur dimostra oggettivamente quanto sia difficile – per la burocrazia scolastica e i regolamenti d’istituto, per il rischio di ricevere reprimende, contestazioni o addirittura denunce – organizzarasi come lavoratori e studenti per comprendere (e far comprendere) la realtà economica sociale e politica in cui vive il prolatariato, cioà la classe cui appartengono la maggior parte dei salariati che lavorano nella scuola di ogni ordine e grado, nonché tanto i ragazzi e le ragazze che costituiscono il corpo studentesco quanto le loro famiglie e i loro amici.

Cogliamo l’occasione per ribadire, come operai e lavoratori in lotta organizzati con il S.I. Cobas, la nostra solidarietà agli studenti e agli insegnanti in lotta sia nel liceo Pasteur di Roma, sia nella scuola italiana tutta e nelle scuole d’Europa (in questo momento, soprattutto in Francia e Albania).

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La lezione degli studenti del “Pasteur” agli educatori

 
Con la seduta più recente del collegio dei docenti il liceo “Pasteur” scrive la sua pagina più triste e degradante per un ambiente di apprendimento.

La deriva securitaria, che monta a tutti i livelli nel paese, investe anche la moltitudine dei docenti del “Pasteur”, con qualche rara eccezione.

Uno scenario distopico: un centinaio di educatori con la frusta, bramosi di punire gli studenti e le studentesse che, spezzando il silenzio generale, avevano protestato contro la militarizzazione della scuola pubblica e lo stato di degrado dell’edilizia scolastica, faceva a gara nell’escogitare strategie per infliggere una lezione a chi aveva osato alzare la testa.

Gli educatori non dedicavano neppure un minuto all’analisi della protesta studentesca, che pur aveva cercato di sollevare importanti questioni sociali attuali. 

Il dibattito si concentrava sul tema della repressione e stigmatizzava l’immagine degli studenti e delle studentesse del liceo che, trattati senza alcun rispetto e considerazione, apparivano adesso pubblicamente come delinquenti e vandali senza cervello. 
La pena madre l’aveva già assegnata la dirigente scolastica già nel corso della protesta studentesca, denunciando alla polizia quattro studenti, i rappresentanti d’istituto, indicati come promotori della protesta.

Sì noti bene l’eccesso di zelo: non una denuncia verso anonimi, ma l’individuazione di presunti capi, non si sa bene con quali criteri.

Un particolare omesso dal dirigente nel suo resoconto sull’occupazione degli studenti, che invece parlava solo genericamente di denunce.

La dirigente, inoltre, definiva “strumentalizzazioni” le testimonianze degli studenti sulla giornata dello sgombero che descrivevano un clima di paura seguito ai modi bruschi della polizia (gli studenti parlano di spintoni e aggressioni verbali).

Da queste basi “amichevoli” partiva dal collegio una vera e propria onda di ipotesi repressive, in cui si articolava il pessimo dibattito degli “educatori”, ormai sempre più agitatori di manette, sempre meno fautori di pensiero critico e di responsabilizzazione.

In pieno delirio di comando i prof esprimevano le più bizzarre e antidemocratiche proposte di violazione dei diritti degli studenti e delle studentesse.

Una professoressa attaccava il diritto allo studio, proponendo di cancellare per punizione i viaggi d’istruzione e precisando la logica sadica di questo provvedimento: colpire gli studenti e le studentesse negli aspetti del percorso didattico da essi ritenuti più piacevoli, appunto i viaggi.

Un’altra professoressa si spingeva ben oltre, attaccando il diritto di riunione degli studenti e delle studentesse con l’incredibile proposta di cancellare l’assemblea d’istituto o di accorciarne i tempi.
Qualcuno con più fantasia proponeva una punizione collettiva economica per il risarcimento dei danni (la cui entità, per altro, veniva ingigantita. Il degrado della palestra, normalmente tollerato, diventava insopportabile dopo qualche scritta degli studenti).
Non poteva ovviamente mancare il divieto di concedere ai ragazzi giornate di autogestione per continuare a discutere i problemi sollevati. L’esperienza della protesta non doveva concludersi con una riflessione comune sull’accaduto. 
Ma l’acme di questo delirio d’odio si raggiungeva nel passaggio dall’assalto agli studenti a quello ai lavoratori del sindacato SiCobas, accusati da un docente di aver voluto strumentalizzare la protesta dei discenti.

Il professore, già noto agli studenti e alle studentesse per aver cercato d’impedire fisicamente la conferenza del progetto didattico “Guerra e lavoro” sul diritto alla casa, giustificava le sue accuse con un pretesto: un errore (prontamente rettificato) di un comunicato del suddetto sindacato in cui una conferenza, tenuta nel liceo “Pasteur” da alcuni lavoratori del SiCobas, figurava avvenuta durante l’occupazione degli studenti e non prima, come invece effettivamente era successo.

Sulla scia di questo intervento il dirigente scolastico dal grilletto facile dichiarava, ciliegina sulla torta, di aver denunciato alla polizia anche il suddetto sindacato.

Il dibattito avveniva in un clima di censura. Gli interventi “anomali” dei pochi professori che criticavano il diffuso approccio repressivo avevano l’effetto della croce sui posseduti, venivano accolti con urla, rumori o minacce di abbandonare l’aula.

La dirigente scolastica non interveniva per riportare l’ordine, non garantendo la libertà di parola dei professori non allineati, che quando non si imponevano per parlare rinunciavano ad intervenire per il clima di tensione generale finalizzato alla censura delle opinioni più scomode.

La scuola non ascoltava gli studenti.

Gli educatori non accoglievano il prezioso impulso dal basso alla critica delle condizioni attuali della scuola pubblica e della società, una spinta preziosa e sempre più rara che ridava significato alla cultura, tanto svilita dall’approccio burocratico, conformista e sterilizzante dell’istituzione. 

Un professore considerava la protesta come vuota di contenuti, ma non leggeva i documenti prodotti dagli studenti, semplicemente non li cercava.

La protesta per una scuola pubblica veramente democratica e dotata di strutture adeguate non dovrebbe riguardare solo gli studenti, tuttavia solo questi ultimi ci hanno provato e, così facendo, hanno dato una grande lezione agli educatori che, prigionieri di un assurdo conformismo, difendono la propria tranquillità di impiegati di stato e riproducono indifferenza.

Per questo prezioso contributo gli studenti sono stati denunciati dalla preside, puniti, zittiti e insultati dai loro professori, sgomberati, intimiditi e spintonati dalla polizia, infangati dalla stampa, rimproverati dai genitori più reazionari.

Prima li soffocano, li spingono verso l’indifferenza, poi li additano come vuoti di senso.

Tuttavia proprio quest’esperienza di lotta, probabilmente, ha aperto gli occhi agli studenti sulla faccia nascosta dell’istituzione, rafforzando in essi l’idea che una scuola di sceriffi, caporali e poliziotti è una scuola di servi che ogni spirito libero ha il dovere di combattere. 
 
14/12/2018

Un professore del liceo Pasteur