Proprio nel giorno in cui la banda Lega&5S, degna erede della banda Renzi, rapinava dalle tasche dei lavoratori 1,3 miliardi di euro (che alla fine potrebbero essere 3) per salvare la Carige, il tribunale di Milano ha emesso contro il SI Cobas e il CSA Vittoria una sentenza di eccezionale gravità con condanne che vanno da 1 anno e 8 mesi per Aldo Milani e altri compagni e compagne, fino a 2 anni e 6 mesi per Elio Lupoli del Vittoria.
Per quale efferato delitto?
Per uno sciopero del marzo 2015 ai cancelli della DHL di Settala.
Diciamo sciopero, e non picchetto o cos’altro, per la semplice ragione che in quella giornata di lotta non si è registrata la minima tensione.
Lo stesso pubblico ministero, che ha il compito istituzionale di accusare, aveva chiesto l’assoluzione per tutti.
Dunque questa sentenza si configura come un attacco diretto al semplice diritto di sciopero.
E non si può che essere d’accordo con i compagni e le compagne del Vittoria quando affermano: “questa condanna rappresenta una chiara rappresaglia e un monito preventivo contro chi prova ad essere realmente opposizione di classe, lottando giorno per giorno per condizioni di vita e di lavoro migliori, in una prospettiva che è però quella di trasformazione radicale di una società basata sullo sfruttamento di classe”.
Nell’impossibilità di applicare al 2015 le nuove norme liberticide del decreto-Salvini, ne è stato applicato lo “spirito”: colpire la lotta di classe degli sfruttati ovunque si manifesti con una sua autonomia.
Dopo l’infinita sequenza di interventi di polizia e carabinieri agli scioperi organizzati dal SI Cobas, dopo la squallida provocazione dei Levoni e della questura di Modena contro il compagno Milani (nel gennaio 2017), dopo le misure restrittive degli ultimi mesi contro i militanti del movimento per il diritto alla casa a Roma, Milano, Cosenza, etc., dopo il varo del cosiddetto decreto-sicurezza, questo salto di qualità della repressione giudiziaria era nell’aria.
Ora che un primo segnale del salto di qualità è arrivato, gli va data una risposta la più forte, ampia e unitaria possibile.
Quando il decreto-Salvini fu varato, fu fin troppo facile affermare, come facemmo, che avrebbe portato maggiore sicurezza solo a boss della logistica, palazzinari, cosche mafiose e padroni d’ogni tacca.
A distanza di pochi mesi la verifica è lampante.
E non c’è più spazio per i contorcimenti di quanti vogliono a tutti i costi distinguere il M5S dalla Lega.
La realtà è che siamo davanti a un governo che fa salvataggi di banche in fotocopia rispetto a quelli del Pd di Renzi e Gentiloni, e che, una modifica dopo l’altra, ha trasformato il provvedimento sul reddito di cittadinanza in un Jobs Act n. 2, che servirà ad imporre nuova “flessibilità” e nuove umiliazioni a chi è in cerca di lavoro: dunque, un vero e proprio reddito di sudditanza.
Se il decreto-sicurezza ha già creato nuove migliaia di irregolari e altre decine di migliaia ne creerà per la gioia dei boss mafiosi e aziendali, il reddito di sudditanza sarà anch’esso un ulteriore incentivo al lavoro in nero o ad un lavoro salariato al sotto-minimo delle garanzie (con i soliti premi per le aziende).
Del resto, la difesa della piccola media-impresa cara ai due soci di governo passa inesorabilmente attravers l’estrema compressione dei salari, dei diritti, delle garanzie di operai e salariati e l’ulteriore frammentazione della classe lavoratrice.
E così pure la difesa della grande impresa che ricorre sempre più al sistema appalti/subappalti.
Nel 2017 il 31,8% del pil italiano è andato all’estero; il governo vuole aumentare questa quota con il sudore e il sangue dei proletari italiani e immigrati (sangue vero: 1.452 “morti bianche” registrate nel 2018, il record degli ultimi decenni, con un aumento enorme tra gli immigrati).
C’è sempre meno spazio per forme di mediazione tra capitale e lavoro salariato, e per il “vecchio welfare”; sì che ai burocrati di Cgil, Cisl e Uil, rimasti in silenzio sulla “riforma delle pensioni” e sul Jobs Act, capaci di firmare accordi per aumenti salariali di 1,7 euro e restati indifferenti e complici sulle discriminazioni contro i proletari immigrati, non resta che diventare gli agenti promotori dei fondi-pensione e del welfare aziendale.
Il razzismo di stato, l’intensificazione della repressione e il sessismo di stato alla Pillon-Fontana contro i diritti acquisiti delle donne, servono a questo progetto di schiavizzazione del lavoro e inquadramento nazionalistico.
E serve a questo anche lo sdoganamento di Casa Pound, Forza Nuova, etc., e la strenua protezione accordata dal ministro degli interni e dal governo tutto alle bande di falsi “tifosi ultras” legate alla grande malavita, o protesi dei gruppi neo-fascisti.
L’Italia deve restare senza gilet gialli, e – tanto più – rossi, e a questo scopo lo spauracchio delle nuove camice nere aiuta.
Ecco l’obiettivo che unisce in un solo fronte reazionario Cinquestelle, Lega, Forza Italia, Pd e altre frattaglie presenti in parlamento, sotto lo sguardo vigile e ammiccante dei custodi della dittatura del capitale globale Mattarella, Draghi e Juncker.
Ma l’incantesimo del 4 marzo comincia ad incrinarsi.
Mano a mano cominciano ad affiorare in superficie le sostanziali continuità di questo con i precedenti governi dell'”austerità”, anzitutto sul rispetto delle regole imposte con il fiscal compact dal grande capitale europeo; e poi sull’Ilva; sulla non-difesa dei licenziati (e non solo dei licenziati politici dell’FCA che ebbero il coraggio di sfidare Marchionne, anche dei licenziati “economici”); sul Jobs Act, rimasto intatto in piedi, e anche sull’impianto della legge Fornero; sulle grandi opere; sulla protezione delle banche; sull’incremento della spesa militare, sulla fedeltà alla Nato e l’intoccabilità di Israele; sui tagli all’istruzione pubblica, sull’aziendalizzazione delle scuole e degli ospedali, etc.
E non è ancora arrivata la doccia gelata (sicura al 100%) degli aumenti dell’Iva e delle imposte regionali e locali…
La sola promessa mantenuta in pieno, sulla scia del Pd Minniti e della politica dell’Unione europea in materia, è il pugno duro contro i richiedenti asilo e gli emigranti sui barconi (i veri “grandi poteri”!), o contro qualche piccola comunità rom o sinti sbaraccata dai propri accampamenti di fortuna – ma con qualche inatteso inconveniente, se è vero che i 49 tenaci africani uomini, donne, bambini sbarcati a Malta (e i 51 sbarcati a Melissa, accolti e aiutati dalla popolazione locale) hanno piegato il pugnoferrista del Viminale come fosse di latta, lui e i suoi emuli europei…
Che l’incantesimo del 4 marzo cominci a incrinarsi è provato da una serie di mobilitazioni: dalle proteste di Ventimiglia, di Catania, di Napoli contro la chiusura delle frontiere e dei porti; dai cortei indetti dal SI Cobas a Milano il 7 luglio e a Roma il 27 ottobre (il più energico e politicamente marcato), e poi quelli, sempre a Roma, del 10 novembre e 15 dicembre, tutti contro il decreto-Salvini; dalla Puglia dei No Tap agli irriducibili No Tav di Torino e della val di Susa; dalla dimostrazione del 4 novembre a Trieste contro Casa Pound a quella di Verona contro l’infame decreto-Pillon, al 24 novembre romano di Non una di meno, fino alle proteste dei disoccupati, dei senza casa, ai primi scioperi studenteschi e alle prime timidissime iniziative anti-
militariste…
Ora è venuto il momento di convogliare queste molteplici spinte fin qui incapaci, nella loro separatezza, nei loro limitati numeri, ma anche nelle perduranti illusioni su un’inesistente diversità dei Cinquestelle, di sbarrare efficacemente la strada al governo Conte, in un solo fronte di lotta unitario chiedendone, come hanno saputo fare i gilet gialli con Macron, le dimissioni per la sua politica anti-proletaria, razzista, sessista, militarista.
Questo governo della repressione anti-sciopero, della guerra agli emigranti e agli immigrati, della diffusione del lavoro nero, deve andarsene!
Non ci illudiamo che sarà cosa facile, e neppure che sia di per sé risolutiva, ma bisogna cominciare a confrontarsi su questa necessità e ad agire conseguentemente, avendo come obiettivo il superamento della frammentazione attuale e l’indizione di uno sciopero generale in cui le tante “singole” spinte possano confluire!
Su questo sforzo saranno misurati tutti i movimenti e gli organismi.
E per portarlo a termine con successo dovremo saper parlare non alla semplice minoranza attiva, ma alla grande massa dei lavoratori, delle lavoratrici, dei giovani – inclusi i tanti che ancor oggi sperano che questo governo possa davvero cambiare in meglio le cose.
Marghera, 10 gennaio
Comitato permanente contro le guerre e il razzismo
Piazzale Radaelli, 3 – Marghera
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