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[CONTRIBUTO] Intervista agli operai immigrati in lotta con il S.I. Cobas. Hicham El Rharbi: “Non mi piace vedere lo sfruttamento. Abbiamo fatto tanti sacrifici con una lotta che ci ha dato tanti risultati.”

Premessa alle 4 interviste

Da ilcuneorosso, n. 3/2019 (vedi qui)

Pubblichiamo di seguito quattro interviste a delegati e dirigenti immigrati del SI Cobas, tre delle quali fatte da una compagna della nostra redazione (in fondo a quest’articolo c’é il collegamento link alle altre interviste).

Non crediamo siano necessari commenti.

Parlano da sé, mostrando quanto la lotta, la lotta di classe, sia per i proletari una scuola, una grande, insostituibile scuola di presa di coscienza della propria condizione e – più in generale – dei rapporti sociali esistenti; una scuola di organizzazione sindacale, ma anche politica.

Spiegano da sole perché le lotte della logistica e il SI Cobas, che ne è stato e ne è il principale animatore, siano state prese di punta dagli organi repressivi dello stato.

E perché hanno saputo, per contro, conquistare ampia solidarietà in Italia e all’estero.

Si deve a proletari, militanti e compagni come questi se lo scorso 8 marzo c’è stata in tanti magazzini del centro-nord a schiacciante prevalenza di lavoratori maschi uno sciopero compatto in difesa dei diritti e delle lotte delle donne, in risposta all’appello allo sciopero internazionale partito dal movimento Non una di meno.

Un fatto inedito, di grande importanza sociale e politica, al di là dei numeri oggettivamente limitati (del resto la “grande” Fiom aveva respinto la richiesta di proclamare lo sciopero), perché va nella direzione della convergenza di tutte le spinte di lotta in un quell’unico fronte anti-capitalista degli sfruttati e delle sfruttate internazionale e internazionalista per il quale noi ci battiamo.

C’è molto da imparare da queste esperienze, da questa esperienza.

Su un punto, però, la pensiamo diversamente dai nostri intervistati: sulle sollevazioni popolari e proletarie arabe.

Dopo le catastrofi di Siria e di Libia, lo schiacciamento nel sangue del movimento di lotta che disarcionò Mubarak in Egitto, e l’impantamento nei giochi istituzionali di quello che liquidò il regime di Ben Ali, è comprensibile il senso di pessimismo, totale o parziale, che emerge nel dialogo con alcuni di questi compagni.

Lo scontro apertosi nel 2011-2012 è stato vinto, per ora, dai nostri nemici, è vero; ma solo con delle nuove sollevazioni di massa degli sfruttati ancora più determinate e autonome da qualsiasi influenza capitalistica interna ed esterna si potrà uscire dall’attuale rinculo delle lotte.

Un’altra via non c’è.

L’Algeria in rivolta di oggi e l’indomita resistenza di Gaza lo confermano.

Ci sarebbe poi da discutere sugli interessanti spunti che l’intervista di Karim contiene sul rapporto tra sindacato e partito, e sullo “stato operaio”, e di sicuro non mancherà l’occasione per farlo.

La redazione de “Il Cuneo Rosso” (vedi qui; per contattare la redazione l’indirizzo di posta electronica è il seguente: com.internazionalista@gmail.com)


Intervista a Hicham El Rharbi

“Non mi piace vedere lo sfruttamento. Abbiamo fatto tanti sacrifici con una lotta che ci ha dato tanti risultati.”

Da ilcuneorosso, n. 3/2019 (vedi qui)

D.: Da dove vieni e quanti anni hai? Quando sei arrivato in Italia?

R.: Vengo dal Marocco, da Agadir. Fra un po’ faccio 40 anni. Qui in Italia sono arrivato nel 2002, ormai sono 16 anni. Sono arrivato direttamente in Italia con un visto turistico e dopo un anno, nel 2003, quando hanno introdotto la legge Bossi-Fini, ho cominciato a fare i documenti per diventare un cittadino immigrato regolare.

D.: Quando sei arrivato qui, eri da solo o avevi già qualche familiare, qualche parente?

R.: No, non avevo parenti in Italia, quando sono arrivato ero da solo.

D.: E poi hai ricongiunto la tua famiglia?

R.: Ho ricongiunto la mia famiglia nel 2013, dopo 11 anni. Ho avuto abbastanza difficoltà a fare i documenti. Il rinnovo dei documenti è legato al contratto di lavoro. E per trovare un contratto di lavoro, devi tenere la testa bassa. Ti serve per i documenti. Noi come immigrati se non abbiamo un contratto di lavoro, non possiamo rinnovare i documenti. Se perdi il lavoro, la questura ti dà sei mesi di tempo per trovare un altro contratto di lavoro. Se non c’è un altro contratto di lavoro, in base alla legge Bossi-Fini la persona immigrata viene espulsa e rimpatriata a casa sua. Ho incontrato parecchie difficoltà qualche anno fa.

D.: Non riuscivi a trovare un contratto di lavoro continuativo? Avevi sempre contratti a tempo determinato?

R.: Ho lavorato sempre sotto le agenzie interinali e sotto le cooperative. Ho lavorato sotto i caporali. Come contratto a volte avevo quello a tempo indeterminato, ma non ero full time, ero part-time… Fanno una cosa del genere per non pagare tante tasse. E comunque anche se avevo il contratto a tempo indeterminato, non avevo quello che prevede il contratto collettivo nazionale. Avevamo il contratto a tempo indeterminato, ma era perché serviva per spedirlo alla questura per il rinnovo del permesso di soggiorno.

D.: Allora, nel 2013 hai avuto un contratto che ti ha permesso il ricongiungimento?

R.: No, da quando ho iniziato a lavorare sotto le cooperative e le agenzie, quindi dal 2003 in poi, per 10 anni, avevo sempre queste problematiche con il contratto e il permesso di soggiorno. Poi dal 2012, quando abbiamo cominciato a fare il sindacato, abbiamo iniziato una lotta con i compagni di lavoro, che sono anch’essi tutti stranieri… Lì è iniziata una lotta per un contratto regolare che permettesse al lavoratore di vivere una vita dignitosa.

D.: Anche i tuoi compagni di lavoro avevano problemi per ricongiungere la propria famiglia, prima del 2013?

R.: Sì, avevano problemi come me. Avevano anche problemi pesanti. Per esempio, siccome avevamo dei contratti per i quali non venivano pagati pienamente i contributi, nel caso di una famiglia con marito, moglie e due bambini, il reddito non bastava per fare il ricongiungimento e si passavano tanti casini e problematiche a causa di questo. In questo caso, il lavoratore non riusciva neanche a ricongiungere tutta la famiglia.

D.: Quindi, grazie alle lotte che avete fatto, oltre a migliorare le vostre condizioni di lavoro, siete anche riusciti ad avere il ricongiungimento?

R.: La lotta che abbiamo portato avanti noi, italiani e immigrati, non c’è differenza… la lotta con il nostro sindacato SI-Cobas ci ha dato grandi risultati: l’aumento del salario, ad esempio. I lavoratori hanno iniziato ad alzare la testa e a dire: “basta sfruttamento con i contratti, con i permessi di soggiorno! Basta con tutte le problematiche che viviamo noi stranieri qui in Italia!”. La lotta ha pagato. Noi abbiamo fatto tanti sacrifici con una lotta che ci ha dato tanti risultati.

D.: Come sei venuto a conoscenza del SI-Cobas?

R.: Bella domanda! È proprio una bella domanda! Quando sono venuto qui in Italia ho vissuto come tutti i lavoratori: ho vissuto tanti tipi di sfruttamento. Nel magazzino dove lavoro io, tanti anni fa, litigavamo sempre con l’azienda, con i capi turno, e poi ci punivano facendoci stare a casa. Cercavo qualche sindacatoche mi difendesse, però non mi sono mai iscritto ai sindacati confederali, perché mi arrivavano voci che sono sindacati che una volta organizzavano la lotta, ma poi non difendono i lavoratori fino alla fine. Sono venuto a sapere del SI-Cobas mentre ero in un bar con dei miei compaesani. Hanno iniziato a parlare di un sindacato, che si chiama SI-Cobas, che stava mettendo in piedi la lotta introducendo le condizioni affinché i lavoratori alzassero la propria testa. Ho sentito questo discorso in un bar, ma non ci credevo, pensavo che fosse come gli altri sindacati. Ma poi ho cercato il sito su Internet, perché anche i lavoratori della SDA, ti parlo del 2012, al bar mi hanno raccontato che i lavoratori della SDA avevano portato avanti delle rivendicazioni contro lo sfruttamento e stavano facendo una lotta, stavano facendo degli scioperi e dei blocchi, per ottenere dei risultati concreti con questo sindacato. Quando ho fatto la ricerca su Internet, ho visto dei miei compaesani, che conoscevo e pensavo che non avrebbero mai fatto una lotta del genere… Quando li ho visti, ho pensato: qualcosa sta cambiando! Sono venuto a conoscenza del SI-Cobas così. Ma poi ho lasciato perdere, perché ho pensato: “Io che vado a fare attività sindacale? Da solo? In quel momento lì? Mi cacciano via subito!”. Ho cercato di radunare una massa di lavoratori stranieri dentro il mio magazzino, però dalle facce vedevo che avevano un po’ di paura di perdere il lavoro e ho lasciato perdere. Dopo sei mesi, nel 2012, è successo che sono stato licenziato dalla cooperativa per cui lavoravo nel magazzino. È stato un licenziamento senza un valido motivo. Nell’azienda pensavano di avere sempre la legge dalla propria parte. Quando mi hanno cacciato via, ho iniziato a lottare con il SI-Cobas. Su piano legale ho impugnato il licenziamento, era un licenziamento orale, non era un licenziamento scritto. I miei compaesani pensavano che non sarei più tornato a lavorare in magazzino, era questa la voce che girava. Però quando ho iniziato a fare una serie di passaggi sul piano sindacale e legale, ho ottenuto un buon risultato: sono tornato al mio posto di lavoro. Quando i lavoratori, i miei compaesani, hanno visto che sono tornato al mio posto di lavoro, dopo quello che è successo, lì è cominciata la lotta. I ragazzi si sono convinti che conla lotta, con il sindacato, con la legge, si può impugnare il contratto, si può alzare la testa e si possono ottenere tanti risultati. Nel mio caso ho imboccato questa strada nel 2012. All’inizio c’erano 20 persone iscritte con il SI-Cobas, adesso è il 90% del magazzino. Il 22 marzo 2013 c’è stato lo sciopero nazionale della logistica, lo abbiamo fatto ad Anzola dell’Emilia, contro la Legacoop. E da lì siamo partiti come lotta e come sindacato.

D.: Volevo tornare al periodo in cui sei arrivato in Italia. Quand’è che hai deciso di emigrare e per quale motivo? Ci sono motivazioni specifiche che ti hanno spinto a partire?

R.: Guarda, ti dico la verità: ho sempre avuto intenzione di emigrare dal mio paese, ma non ho mai pensato nella mia vita che sarei immigrato qui in Italia, in un paese di cui non conosco nemmeno la lingua. Ho sempre pensato di emigrare in un paese dove avrei potuto comunicare in francese, ad esempio la Francia o il Belgio. Il francese è la nostra seconda lingua dopo lamadrelingua araba. Pensavo che se fossi emigrato, sarei andato in Francia, perché parlo francese e almeno sarei riuscito con la lingua. I motivi che mi hanno spinto ad emigrare dal mio paese sono tanti e sono vari. Il lavoro non si trova. Lo sfruttamento è tanto. C’è la povertà. Ci sono tante cause che non ti danno prospettive di vivere nel mio paese di origine e che ti spingono ad emigrare. Pensavo che bastava attraversare il mare, e che dopo il mare mi sarei trovato il paradiso di fronte. Invece quando sono venuto qua in Italia… Secondo me è il destino che mi ha portato qua… In Italia ho trovato tanti problemi. Non c’è paragone tra i problemi che ci sono qui in Italia e quelli in Marocco, dicevo sempre… Quando ho avuto il mio primo permesso di soggiorno e ho visto che il permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro, mi sono detto: “Allora che cambiamento è questo qua?”. Il motivo che spinge ad emigrare dal mio paese verso l’Europa è che non ci sono prospettive per sopravvivere. È questo il motivo.

D.: Quando eri ancora in Marocco, che studi avevi fatto?

R.: Per due anni ho frequentato l’università, la facoltà di lingua e letteratura francese. E poi, dopo due anni, sono emigrato tramite visto. Ho fatto un visto per emigrare qui in Italia.

D.: Quindi in Marocco non lavoravi, eri studente…

R.: Sì, studiavo, ma d’estate facevo dei lavoretti. Andavo ad aiutare i miei zii al porto, perché abitavo vicino al porto. Facevo il commerciante di pesce… Ho cambiato vari posti di lavoro, ma in Marocco non ho mai pensato di fare un lavoro pesantissimo come sto facendo adesso, come magazziniere o come facchino qui in Italia, perché non c’è paragone tra fare il facchino in Marocco e farlo in Italia. In Marocco è un lavoro pesantissimo, è pesante anche qui in Italia, soprattutto se guardiamo alla paga base… Ma in Marocco è pesantissimo, soprattutto perché sfruttano la gente al massimo.

D.: Cioè è un lavoro soprattutto di braccia? Manca la meccanizzazione?

R.: Sì, è così.

D.: Quindi, è stata la situazione in Italia, soprattutto il ricatto del permesso di soggiorno, che ti ha portato ad accettare un lavoro che in Marocco non avresti mai accettato di fare?

R.: No, non ho mai pensato di dover fare un lavoro come questo qua. Sono stato costretto a farlo, altrimenti come avrei fatto a rinnovare i documenti? Dal 2002 fino ad oggi, nel corso dei 15 anni e passa che ho vissuto qua in Italia, posso dire di avere vissuto tanti tipi di sfruttamento, come i miei compaesani e come gli altri immigrati che vengono qui in Italia. Ho fatto tanti lavori qui in Italia che prima non avrei mai pensato di fare.

D.: A parte il magazziniere, quali altri lavori hai fatto?

R.: A parte il magazziniere, ho lavorato nel carico/scarico di tacchini e polli, è stato un lavoro pesantissimo. Poi ho lavorato anche come meccanico. Ad esempio questo qua è un taglio che mi sono fatto nel 2004… Una ferita abbastanza pericolosa, sono andato al pronto soccorso, mi hanno dato alcune cure… e “tutto a posto”. Non ho avuto né infortunio, né malattia; i ragazzi del lavoro mi dicevano: “se fai una cosa del genere, ti cacciano via dal lavoro”. In questo caso qui avevo il permesso di soggiorno in scadenza, allora ho portato un po’ di pazienza. Vuol dire che noi immigrati, con il permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro, sacrifichiamo anche la salute, la nostra pelle, per avere un documento ufficiale che mi permetta di essere in condizione regolare qui in Italia. Anche questo è un tipo di sfruttamento. Non possiamo vivere in queste condizioni qui, con il permesso di soggiorno che va sempre legato al contratto di lavoro. Come organizzazione sindacale cercheremo di impugnare anche questa cosa qua.


D.: Ti è capitato altre volte di avere infortuni o di essere malato e di dovere andare a lavorare lo stesso?

R.: Sì, sì. Prendiamo ad esempio il magazzino dove sto lavorando dal 2006. Conosco alcuni miei compaesani che vengono a lavorare anche con il mal di testa più incredibile e il padrone gli diceva: “Prendi un Aullin o un Ibuprofene, così ti passa e vieni a lavorare”. Vuol dire che non ti permettono neanche di fare la malattia. Se fai una malattia del genere, se stai veramente male, ti lasciano a casa come punizione per 15 giorni. Anni fa, ci sono stati casi di gravi infortuni nel mio magazzino… Ad esempio persone che si sono spaccate la gamba e anche il piede e hanno avuto un mese di malattia, e poi sono tornate zoppe a lavorare, perché non erano in condizioni regolari per quanto riguarda i contributi relativi alla malattia, che devono essere pagati al 100%.

D.: Costretti a lavorare in casi di infortunio e malattia… quali altre pessime condizioni di lavoro avete dovuto subire, sia nel magazzino, sia esperienze che hai fatto in altri posti di lavoro?

R.: Tutte le persone [che conosco] hanno svolto lavori pesanti. Sopportano queste condizioni per rinnovare i documenti, per fare il ricongiungimento familiare, perché sperano di poter vivere una vita dignitosa. Invece non è così. Abbiamo svolto tanti lavori pesanti in questo paese. Se andassimo a fare una valutazione che riguarda solamente il settore della logistica, troveremo che quasi il 90% della manodopera è di origine straniera. Nella logistica se sei di origine straniera, puoi essere sfruttato di più.

D.: Qui in Italia a un certo punto ti sei sindacalizzato e hai iniziato a partecipare alle lotte. Quando eri in Marocco, ti è mai capitato di partecipare a movimenti o lotte mirate a cambiare la situazione?

R.: In Marocco ho partecipato a delle lotte, ma non erano lotte sindacali. Ero in un’associazione sportiva e di arte. Lì nel mio paese, con gli altri miei compaesani, abbiamo pensato di fondare un’associazione che si occupava di arte, sport e teatro. Quell’associazione e quell’esperienza mi hanno dato un po’… no, non è coraggio… mi hanno insegnato a capire un po’ a livello politico cosa vuol dire sindacato. Ma il sindacato, lì a casa mia, non ho mai fatto una cosa del genere. È stato qui in Italia che per la prima volta ho partecipato al sindacato. Ma al di là del sindacato, lì a casa mia quando vedevo un caso di sfruttamento, intervenivo subito. Questo vuol dire fare già sindacato, anche prima di iscrivermi. Non mi piace vedere lo sfruttamento. O magari qualcuno che picchia un bambino o qualcun altro, o magari qualcuno che voleva fare il fenomeno… non mi piace una cosa del genere e allora, a casa mia, intervenivo subito. Vuol dire che facevo il sindacato già per natura, diciamo. Non posso stare lontano e fare finta di non aver visto niente. Ma a casa mia non ho mai fatto del vero sindacalismo. Ho iniziato a fare sindacato qua in Italia, dal 2012 fino ad oggi.

D.: E quando eri studente, hai mai partecipato ad associazioni studentesche?

R.: Sì, quando ero al collegio, negli anni 1990-1991, quando è iniziata la guerra tra Iraq e Kuwait, abbiamo organizzato delle proteste. Avevo 16-17 anni, ero al liceo. Abbiamo organizzato un corteo dentro il liceo, abbiamo fatto delle iniziative politiche contro la guerra tra Iraq e Kuwait. È intervenuta in maniera abbastanza pesante la polizia, perché una cosa del genere non potevi farla, non eravamo autorizzati… Però l’abbiamo fatta dentro il liceo. E lì è intervenuta la polizia, con le denunce e tutto il resto, però alla fine ci è andata bene. Abbiamo preso un avvocato tutti insieme per cancellare le denunce. Quindi, sì ho fatto delle esperienze politiche vissute negli anni ‘90, quando c’era la guerra tra Iraq e Kuwait.

D.: Poi ti è più capitato?

R.: No, là non mi è più capitato. Sai, i nostri genitori quando vedono una cosa del genere, ti tirano le orecchie o comunque ti fanno capire che non puoi fare una cosa del genere, soprattutto in Marocco, altrimenti intervengono in maniera pesantissima e ti mettono in galera… Avevamo un po’ di paura, la paura l’abbiamo vissuta… Ma lo stesso avevamo sempre voglia di sindacalismo, di vivere una vita politica, di concentrarsi sulla politica, di parlare della politica e di tante cose.

D: Quando ci sono state le “primavere arabe”, cos’hai pensato?

R: Ti dico la verità? Un cambiamento c’è, ma non sono convinto al 100% riguardo alla primavera araba, da quando è iniziata nel 2011 in Tunisia. Personalmente non sono in grado di fare un’analisi politica a livello abbastanza alto, però la primavera araba non mi convince al 100%. Ci sono stati dei cambiamenti, però sono stati dei cambiamenti in peggio da quando è iniziata nel 2011 fino ad oggi, in Siria. Facciamo un esempio: è cominciato dalla Tunisia. Ma tra la Tunisia, il Marocco e la Libia, consideriamo solamente il paese da dove vengo io… Tra Tunisia e Marocco non c’è tanta distanza. Ma perché, dopo essere iniziata in Tunisia, non è passata anche al mio paese? Poteva anche essere una primavera araba che avrebbe riguardato tutti i maghrebini, ma se consideriamo soltanto il Maghreb, vediamo che la primavera araba ha coinvolto soltanto la Tunisia e la Libia. In Algeria, Marocco e Mauritania ci sono stati dei piccoli movimenti in quel periodo lì, però sono stati subito dissolti. Rispetto alla Tunisia, gli altri paesi maghrebini non hanno differenze: lo sfruttamento che c’è in Tunisia, c’è anche negli altri paesi. Per questo non mi convince tanto questo termine “primavera araba”, perché è avvenuto in Tunisia, è passata alla Libia, è saltata in Yemen, in Siria, in Qatar… C’è un movimento nel sistema capitalistico che mette sotto controllo questa primavera araba. Prendiamo anche l’esempio dell’organizzazione dell’Isis: c’è la primavera araba e dopo uno o due anni, salta fuori un’organizzazione che si chiama Isis. Questa organizzazione non mi convince, perché qualcuno protegge tutta la gente di quest’organizzazione, qualcuno offre anche dei soldi per mettere in campo quest’organizzazione per far dividere tutti i paesi arabi. Se vedi solo le armi che usa questa organizzazione, i mezzi che usano… È una cosa che ti pone molte domande. Come fanno ad avere questi soldi, questi mezzi di trasporto, le armi?

D.: Tornando alla questione del tuo lavoro, mi hai detto che il 90% circa dei lavoratori dei magazzini nella logistica sono immigrati. A parte i lavoratori dal Marocco, quali altre nazionalità ci sono?

R.: Ci sono tante nazionalità. Il magazziniere lo fanno soprattutto i maghrebini, ma ci sono anche rumeni, moldavi, senegalesi, nigeriani, ghanesi… Ci sono varie nazionalità.

D.: Nel magazzino dove lavori, in che rapporti sei con i lavoratori che provengono da altri paesi?

R.: Con i colleghi ho sempre avuto un buon rapporto. Nel magazzino dove lavoro io, ci sono più marocchini. Ci sono anche due tunisini, ma la maggior parte sono marocchini. Ci sono anche abbastanza italiani e due o tre rumeni. Il rapporto con tutte queste nazionalità è buono. Va bene, discutiamo, litighiamo… Perché nei posti di lavoro è così, ognuno ha il suo carattere. Però io avevo sempre un rapporto molto limpido, un rapporto di fiducia, onestà e chiarezza. Questo lo dimostra anche quando ho iniziato a fare sindacato: quando ho portato il sindacato dentro quel magazzino nel 2012, eravamo in 20 persone, oggi siamo quasi il 95%. Vuol dire che in tutto il magazzino siamo un solo sindacato: se non avessi avuto un buon rapporto con i miei colleghi, nessuno si sarebbe mai fidato e non avrei potuto fare sindacato.

D.: Quindi, al di là dei lavoratori del tuo paese di origine, c’è stata un’unità tra lavoratori provenienti da vari paesi, inclusi quelli italiani. Avete fatto un unico fronte…

R: Sì, non vorrei offendere nessuno… Però è più facile convincere un marocchino che convincere un italiano. Comunque anche convincere il marocchino o lo straniero a fare sindacato è difficile… Però ho trovato un punto comune: dobbiamo ragionare con la testa, dobbiamo portare avanti una lotta, dobbiamo fare sindacato, perché le condizioni che abbiamo subìto noi, non ci permetteranno neanche di sopravvivere, di condurre una vita dignitosa. Quindi abbiamo ottenuto molti risultati grazie a un buon rapporto che ho sempre avuto con i miei colleghi, grazie all’onestà, grazie alla partecipazione sindacale che ho vissuto in questi sei anni e che mi ha insegnato come muovermi, come fare sindacato e come convincere non un mio iscritto, ma l’altro lavoratore che è ancora sfruttato senza limiti.

D: Quindi, sul posto di lavoro hai dei buoni rapporti anche con i lavoratori italiani. Ma al di fuori del posto di lavoro, come sono i rapporti con la popolazione italiana in genere? Hai mai avuto problemi di discriminazione, di razzismo?

R: Ho vissuto alcuni episodi di discriminazione razzista. Basta che vai in giro con il bimbo e con la moglie, e vedi lo sguardo, come uno ti guarda… Non è una discriminazione nel modo in cui ti parlano… è il modo in cui ti guardano. Ti faccio solo un esempio: quando è venuta qui in Italia mia moglie, per il primo permesso di soggiorno ci sono volute 8 fototessere. Mia moglie porta il velo e la questura chiedeva sempre che l’orecchio fosse visibile. Allora ho fatto queste fototessere, ho portato mia moglie in questura, ha fatto le impronte digitali e la dottoressa della polizia, quando ho finito, mi ha fa una battuta con cui mi fa capire che quando facciamo la fototessera per le nostre donne, è inutile mettere il velo. Questa battuta era una discriminazione, le ho fatto capire che lei deve fare solamente il suo lavoro e non deve andare oltre il suo lavoro. Quindi, una piccola discriminazione l’abbiamo vissuta anche nelle questure. Con la popolazione italiana ho sentito un po’ un atteggiamento discriminatorio, ma non tanto pesante. Ci sono cittadini italiani che sono anche loro contro le discriminazioni e contro il razzismo.

D: Tra i tuoi compagni di lavoro c’è stato qualcuno che ha vissuto qualche caso di discriminazione?

R: Di nascosto sì… Possiamo dire che non c’è una discriminazione diretta. Magari un italiano fa una battuta e ti fa capire che lui è un po’ razzista, ma non ci sono dei messaggi diretti.

D: Prima hai detto che hai sempre desiderato emigrare verso l’Europa. Hai mai pensato di tornare al tuo paese di origine? Oppure pensi che la tua vita ormai sia qui e non tornerai più?

R: Quando sono venuto qui in Italia, avevo fatto il primo permesso di soggiorno e avevo capito che il permesso di soggiorno va legato al contratto di lavoro, mi era venuta questa idea di tornare al paese di origine. Avevo quest’idea. Ma da quando ho iniziato a fare il sindacato, dal 2012, ho cambiato idea. Lo stesso sistema di sfruttamento che ho vissuto qui in Italia, lo vivo anche in Marocco. Ho cominciato a fare il sindacato qui in Italia; magari più avanti, se tornerò in Marocco, avrò delle esperienze sindacali che potrò rifare anche lì. Ma, comunque, ho cambiato idea. Anche perché mio figlio è nato qui in Italia, e bisogna che viva qui in Italia.

La redazione de “Il Cuneo Rosso” (vedi qui; per contattare la redazione l’indirizzo di posta electronica è il seguente: com.internazionalista@gmail.com)