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[CONTRIBUTO] Intervista agli operai immigrati in lotta con il S.I. Cobas. Papis Ndiaye: “Mi hanno spaccato la macchina, tagliato le gomme, mi hanno aperto la casa…”

Premessa alle 4 interviste

Da ilcuneorosso, n. 3/2019 (vedi qui)

Pubblichiamo di seguito quattro interviste a delegati e dirigenti immigrati del SI Cobas, tre delle quali fatte da una compagna della nostra redazione (in fondo all’articolo trovate il collegamento link alle altre interviste).

Non crediamo siano necessari commenti.

Parlano da sé, mostrando quanto la lotta, la lotta di classe, sia per i proletari una scuola, una grande, insostituibile scuola di presa di coscienza della propria condizione e – più in generale – dei rapporti sociali esistenti; una scuola di organizzazione sindacale, ma anche politica.

Spiegano da sole perché le lotte della logistica e il SI Cobas, che ne è stato e ne è il principale animatore, siano state prese di punta dagli organi repressivi dello stato.

E perché hanno saputo, per contro, conquistare ampia solidarietà in Italia e all’estero.

Si deve a proletari, militanti e compagni come questi se lo scorso 8 marzo c’è stata in tanti magazzini del centro-nord a schiacciante prevalenza di lavoratori maschi uno sciopero compatto in difesa dei diritti e delle lotte delle donne, in risposta all’appello allo sciopero internazionale partito dal movimento Non una di meno.

Un fatto inedito, di grande importanza sociale e politica, al di là dei numeri oggettivamente limitati (del resto la “grande” Fiom aveva respinto la richiesta di proclamare lo sciopero), perché va nella direzione della convergenza di tutte le spinte di lotta in un quell’unico fronte anti-capitalista degli sfruttati e delle sfruttate internazionale e internazionalista per il quale noi ci battiamo.

C’è molto da imparare da queste esperienze, da questa esperienza.

Su un punto, però, la pensiamo diversamente dai nostri intervistati: sulle sollevazioni popolari e proletarie arabe.

Dopo le catastrofi di Siria e di Libia, lo schiacciamento nel sangue del movimento di lotta che disarcionò Mubarak in Egitto, e l’impantamento nei giochi istituzionali di quello che liquidò il regime di Ben Ali, è comprensibile il senso di pessimismo, totale o parziale, che emerge nel dialogo con alcuni di questi compagni.

Lo scontro apertosi nel 2011-2012 è stato vinto, per ora, dai nostri nemici, è vero; ma solo con delle nuove sollevazioni di massa degli sfruttati ancora più determinate e autonome da qualsiasi influenza capitalistica interna ed esterna si potrà uscire dall’attuale rinculo delle lotte.

Un’altra via non c’è.

L’Algeria in rivolta di oggi e l’indomita resistenza di Gaza lo confermano.

Ci sarebbe poi da discutere sugli interessanti spunti che l’intervista di Karim contiene sul rapporto tra sindacato e partito, e sullo “stato operaio”, e di sicuro non mancherà l’occasione per farlo.

La redazione de “Il Cuneo Rosso” (vedi qui; per contattare la redazione l’indirizzo di posta electronica è il seguente: com.internazionalista@gmail.com)


Papis Ndiaye: “Mi hanno spaccato la macchina,
tagliato le gomme, mi hanno aperto la casa…

D.: Innanzitutto da dove vieni? Quando sei partito? Cosa succedeva nel tuo paese prima che tu partissi?

R.: Vengo dal Senegal. Nel mio paese studiavo: ho fatto il primo anno di università, poi ho abbandonato gli studi e sono andato a lavorare. Lavorando ho acquisito una formazione sulla contabilità, ho lavorato per un anno. Poi però… come per i sogni di tanti africani basati su delle informazioni e dei dati sbagliati, sono finito qua. Ho deciso di andare via, di emigrare.

D.: Cosa intendi per dati sbagliati?

R.: Per dati sbagliati intendo che i media ci fanno credere che qua è un eldorado e invece… Ti fanno credere che in Europa ci sono maggiori possibilità di trovare lavoro, di essere retribuiti meglio, che ci sono più diritti, che c’è tutto e di più. E quindi ho deciso di andare via.

D.: Questo quando è stato?

R.: È successo nel 1999.

D.: Quindi, prima della Bossi-Fini.

R.: Sì, nel 1999 ho abbandonato il mio posto di lavoro e sono venuto in Europa. E non sono più tornato.

D.: Il primo paese dove sei arrivato è stato l’Italia?

R.: No, è stata la Francia, però per questioni di pelle i francesi non mi piacciono. Allora sono venuto in Italia. Sono venuto in Italia proprio tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000.

D.: Quando ti sei spostato in Italia, avevi già dei contatti?

R.: Sì, avevo dei parenti e degli amici che vivevano in Italia. E quindi da Parigi ho preso un volo, sono sceso Bologna. Da Bologna sono andato a Romanovdi Lombardia, dove avevo degli amici. A Romano di Lombardia sono rimasto per i mesi di gennaio e febbraio, poi sono andato in Sicilia, perché all’inizio era difficile integrarsi… È difficile come in tutti gli inizi, no? Non avevi minimamente una possibilità di inserimento, perché non sapevi la lingua, non eri riconosciuto, non avevi niente da offrire al paese in cui sei approdato e quindi dovevi cercare di fare i primi passi di un immigrato. E i primi passi di un immigrato spesso erano di andare a fare il vucumprà. Da lì impari la lingua, impari anche ad interagire con la gente, capisci… Da lì impari! È il primo passo nella società per imparare a scrivere. Da lì cominciano ad aprirsi le porte.

D.: In Sicilia come ti trovavi?

R.: Ho vissuto due begli anni in Sicilia. Ho avuto anche fortuna, perché il mio obiettivo era di continuare gli studi. E poi avevo anche un po’ di soldi per pagarli, perché quando sono venuto nel 1999 avevo un po’ di soldi miei. Però sono andato all’università per iscrivermi e mi hanno detto che non avevo il permesso di soggiorno e quindi era impossibile. Lì è terminato il mio sogno di continuare l’università. Allora sono andato a fare il vucumprà, e sono rimasto in Sicilia due anni. Sono arrivato nel mese di marzo del 2000: aprile, maggio, giugno… Arriva l’estate e comincio a vendere anche sulla spiaggia. È un lavoro pesantissimo. Da studente a contabile, da contabile a venditore sulla spiaggia era pesante, però era il percorso necessario per andare avanti e l’ho fatto. Bene o male la popolazione in Sicilia è più malleabile, quindi riuscivo a integrarmi, a farmi degli amici. Durante quel periodo ho conosciuto un francese che faceva i documentari. Ha fatto un documentario sull’immigrazione che si intitolava “L’amico che viene da lontano”. Ci ho lavorato per due anni circa, fino all’attentato delle torri gemelle, con tutte le difficoltà connesse perché senza il permesso di soggiorno c’erano limitazioni per l’accesso a certi luoghi e per svolgere certe attività. Comunque lo abbiamo fatto, ho lavorato come assistente e attore, perché avevo più possibilità di intervistare altri immigrati e prostitute, rispetto al regista francese che non poteva… Cioè era limitato su questi argomenti, perché è una tematica rispetto alla quale difficilmente trovi apertura da parte degli immigrati, perché con i sistemi di controllo che ci sono… Ci sono poliziotti in borghese, ci sono tutti i tipi di controllo che tutt’ogg i cittadini non conoscono. Gli immigrati sono soggetti a dei controlli pazzeschi. Mi ricordo che in Sicilia ci svegliavano alle tre o alle quattro del mattino per controllarci la casa. Intrusi a casa, ma non era una procedura legale. Lo facevano perché eravamo immigrati e non potevamo alzare la testa perché chi aveva il permesso, aveva paura di farselo revocare, e chi non aveva il permesso, non aveva tanta voglia di essere
schedato. Loro entravano a casa nostra e rubavano i telefonini. Lo faceva sia la polizia, sia i carabinieri, sia la guardia di finanza. Al che un giorno non mi andava più bene questa cosa, ho deciso di non aprire la porta e di portarli da un avvocato, e quindi ho dovuto chiedere 10.000 lire a tutti gli abitanti della casa… Eravamo in 35 persone, c’erano cinque o sei stanze. Ci siamo rifiutati di aprire e li abbiamo portati dall’avvocato. Da lì abbiamo avuto un momento di respiro. Facendo questo documentario ho potuto conoscere tanta gente, tantissima. E poi quando ero giù in Senegal, giocavo a pallacanestro. Sapevo giocare bene. Ma nonostante il documentario, continuavo a fare il vucumprà perché ero senza documenti, senza niente, dovevo fare quello. C’erano tantissimi miei amici di infanzia che erano vittime della stessa cosa, costretti ad emigrare. E ci trovavamo a Catania. Eravamo un bel gruppo e riuscivamo a farcela vendendo nelle spiagge, trovando dei lavoretti… Un’estate sono andato a vendere orologi sulla spiaggia di San Vito Lo Capo. Lì organizzavano un torneo di pallacanestro a livello cittadino, avevano creato delle squadre. E siccome mi piaceva giocare a pallacanestro, dopo le cinque, quando finivo di lavorare, andavo al campetto e giocavo in una squadra. Abbiamo vinto! Durante quel periodo lì, mi ha visto il rappresentante di una squadra di Legnano, che mi ha proposto di andare a giocare nel Legnano: è questo il mio arrivare al Nord nel 2002-1. C’era una legge per regolarizzare gli immigrati e la squadra aveva fatto la richiesta pagando 1000 € e autodenunciandosi, dicendo che io lavoravo lì da tre mesi… perché queste erano le condizioni che imponeva la legge, ma non era realmente vero. Per questo io dico che è lo Stato il primo strozzino, è lo Stato il primo caporale, il primo sfruttatore nei confronti degli immigrati. Quindi… Autodenunciando che io avevo iniziato a lavorare tre mesi prima, [lo Stato] ti dice: “Ok, mi dai 1000 €, cioè tre mesi di contributi, e fai la richiesta”. Ho fatto la richiesta, questa famiglia mi ha accolto a casa sua, mi trovavo bene, giocavo… Ovviamente non potevo competere in campo, perché non avevo il permesso… e quindi, anche se avevo tutte le capacità per giocare e per essere uno degli elementi più bravi della squadra, non potevo competere. Ho preso i documenti dopo due anni quasi da quando avevo iniziato a giocare. Pensavo di aver già superato tante cose, invece no: per il rinnovo del permesso, si tengono altri due anni i documenti e così io ho perso la squadra, perché non poteva continuare a pagarmi mentre non giocavo in campo. Quindi sono dovuto tornare a fare il vucumprà finché non ho potuto ritirare il secondo permesso per andare a trovare lavoro. Sono tornato di nuovo in Sicilia durante il periodo estivo per andare a vendere sulle spiagge, perché era quello che ti permetteva di vivere. Poi mi hanno chiamato il 3 settembre del 2004 e mi hanno dato il rinnovo del permesso di soggiorno e da quel momento sono andato in cerca di lavoro, perché avevo necessità di lavorare. Ho abbandonato lo sport e sono andato a fare l’agente di sicurezza al McDonald’s.

D.: Sei rimasto in Sicilia o sei tornato al Nord?

R.: Sono tornato al Nord. Dopo l’estate sono tornato al Nord, perché in Sicilia non c’è lavoro e non volevo trascorrere la mia vita a fare il vucumprà. Avevo deciso di trovare un lavoro, sono tornato al Nord e ho fatto l’agente di sicurezza al McDonald’s. Ho smesso dopo tre mesi, perché non era un tipo di lavoro che mi piaceva. Non riuscivo ad assumere il ruolo nella società di uno che prende e butta fuori, prende e butta fuori. Perciò ho smesso e sono andato a cercare un altro lavoro. Dopo il McDonald’s ho trovato un lavoro alla Lineaservice. La vita va avanti. La Lineaservice era una ditta ecologica, che produceva bagni chimici. Aveva vinto l’appalto per le Olimpiadi del 2006 a Torino per fornire i bagni chimici montati nei villaggi olimpici, mentre la manutenzione la affidava a un’altra società. Io lavoravo come caposquadra.

D.: In questo periodo eri in Piemonte?

R.: No, ero qua a Milano, però mi avevano trasferito in Piemonte per due mesi. Poi sono ritornato a Milano, ma ho perso quel lavoro perché la società non era stata pagata. La società che aveva organizzato le Olimpiadi non aveva pagato 2 milioni di euro alla società per cui lavoravo… Questa società era quasi fallita e ci aveva imposto dei ritmi di lavoro che erano insostenibili. Mi ricordo bene. Il proprietario era comunque mio amico, col tempo eravamo diventati amici. Davvero. Un giorno mi mandano verso l’Austria per montare le strutture di questi bagni, era a quasi 1000 km da Milano. Prima di avere problemi economici, la società pagava l’albergo, quindi andavi lì, dormivi e il mattino successivo lavoravi. Avendo problemi economici, non poteva più sostenere questi costi. Doveva contenere i costi e quindi io dovevo partire con l’auto di servizio, fare 1000 km, che sono 10 o 11 ore di guida, andare a lavorare per 5-6-7 ore di lavoro, e poi fare altre 10 o 11 ore di guida per ritornare a casa. Quindi fai conto che nell’arco di 24 ore, sono partito alle tre di mattina e sono tornato a casa alle cinque di mattina del giorno successivo. Ero arrivato a casa alle cinque di mattina e alle otto dovevo ripartire per Firenze. Perciò gli ho detto: “Ascoltami, abbiamo coltivato un bel rapporto e non lo voglio rovinare. Preferisco dimettermi e andarmene via, piuttosto che restare qui e litigare, perché lo sai benissimo che te ne stai approfittando e che non può andare avanti così perché non posso rischiare la mia vita così. Ho fatto 25 ore di fila senza dormire e tu mi dici oggi, alle otto di mattina, che devo prendere e andare a Firenze. Ma per chi mi hai preso? Pensi che io non sia un essere umano?”. Per non dover litigare con lui, mi sono dimesso e sono andato a cercare un altro lavoro. Cercando un altro lavoro, sono andato a finire nelle cooperative.

D.: Sei finito nel giro della logistica?

R.: No, prima della logistica mi è capitato di fare vari lavori saltuari. Poi ho iniziato a lavorare per una società di moda, ma è durato poco perché mi aveva portato lì una cooperativa. Poi con la stessa cooperativa ho iniziato a lavorare per la DHL di Segrate ed è da lì che sono entrato nel mondo della logistica. Era nel 2007. Sono stati i miei primi passi nel mondo della logistica. Sono andato in vacanza nel mio paese a gennaio del 2007, sono tornato a fine febbraio e dall’inizio del mese di marzo ho cominciato a fare il facchino alla DHL. Ma siccome avevo delle conoscenze informatiche, anche se sono entrato come facchino, la cooperativa mi usava come un suo punto di riferimento, facevo tutto. In questo periodo ho avuto discussioni con un dipendente della DHL stessa. Alla fine i rapporti si sono rotti e gli ho fatto causa…

D.: Hai avuto problemi con quelli della cooperativa o con…

R.: Con il responsabile della DHL, perché era un giovane appena formato, che non era tanto esperto nella gestione informatica del magazzino, perché noi facevamo dei lavori e li dovevamo ripetere tre o quattro volte per degli errori. Ma io glielo dicevo: “Gaetano, guarda che non va. Aspetta…”. Lo aiutavo molto su queste cose, perché quando facevo la contabilità in Senegal, in un deposito alimentare, usavo lo stesso programma, l’S400. Lo conoscevo bene, perché l’S400 ha una parte che gestisce la logistica, una il merchandising e anche la contabilità… Lo conoscevo bene. Lui pretendeva di venire al lavoro e lasciarmi tutto da fare: la parte di contabilità, il facchino, tutto sotto la mia responsabilità. E mi pagavano 1000 € al mese! Io un giorno ho rifiutato di fare la sua parte, perché facevo il lavoro per lui: pur di non ripetere il lavoro 3 o 4 volte, mi toccava stivare tutti i bancali, gestire lo stoccaggio del magazzino, il prelievo del magazzino e la preparazione… Perciò abbiamo litigato per questo motivo. Siccome io ero dipendente della cooperativa, e non della DHL, lui non poteva prendere certe decisioni su di me, e io lo sapevo. In quel periodo lui prese la decisione di dirmi: “Timbri e vai a casa”… Quindi di licenziarmi, perché io avevo rifiutato di fare la sua parte. Allora sono andato dai sindacati, dalla Cgil. La Cgil, sapendo bene quale era il problema, ha mediato e mi ha detto: “guarda, ti danno quattro mensilità”. Lì è stata la prima volta che li ho mandati a cagare. Ho litigato parecchio con loro, perché sapevo bene che se avviavo una causa vincevo, anzi potevo essere assunto, perché c’era un’interposizione di manodopera in questa faccenda. Però loro non volevano andare in causa, e da quel momento lì ho avuto problemi con la Cgil. Cosa è successo? Ci siamo conciliati, mi prendono a Cassano e mi portano alla DHL di Settala. Quindi passo da una DHL ad un’altra: grazie alla conciliazione mi riconoscono una somma di soldi, mi fanno andare in un’altra società, passo ad un altro consorzio di un’altra cooperativa. Lì ho trovato delle condizioni di schiavismo puro, perché lo straordinario non veniva pagato, non avevi nessun diritto. Tu dovevi lavorare e prendere sei euro lordi all’ora. Quindi più ore lavori, più euro guadagni. Ma 6 euro lordi all’ora, quando togli le tasse, prendi 4 euro e 50, 4 euro e 80 all’ora quando va bene… Perciò ho dovuto cercare un’organizzazione sindacale. Ma avendo avuto un’esperienza negativa con la Cgil, ho cercato un’alternativa e mi sono iscritto al SI Cobas.

D.: Il SI-Cobas era ancora Slai-Cobas o…

R.: Erano i primi momenti in cui c’era stata la spaccatura con lo Slai-Cobas. Erano i primi passi. Però non li conoscevo neanche, avevo necessità e non mi andava per niente bene di tesserarmi con i confederali. Avevo già il mio punto di vista, avevo un’esperienza negativa, avevo visto come si era svolta la trattativa… E quindi avevo deciso che era meglio non avere la tessera con loro. Però cosa hanno fatto? Loro sapevano bene come la pensavo, per cui mi avevano un po’ lasciato in pace. Avevano portato un altro sindacalista marocchino, della Cgil, per convincermi ad aderire al loro sindacato. Gli dico: “se io aderisco, qualunque decisione prendiamo, la dobbiamo concordare. Non deve succedere che tu fai quello che vuoi, o che quando abbiamo bisogno non ci sei, o che quando ti chiamiamo a fare l’assemblea decidi tu”. “Va bene, va bene, va bene”. Mi tessero con la Cgil. Però è durato neanche un mese, perché li chiamo per dire: “Senti, noi abbiamo bisogno di un’assemblea perché quello che c’è qua non è tanto normale, non è regolare e quindi…”. Lui per problemi di famiglia si era spostato e così ci hanno mandato un altro funzionario. Un giorno questo mi chiama e mi dice: “Senti, dobbiamo fare un’assemblea perché la cooperativa è in difficoltà e quindi dobbiamo chiedere ai lavoratori di sostenerla con delle ore non pagate”. Gli dico: “ma tu sei fuori?”. “No, ma non tocchiamo le tue ore, anzi ti danno di più, ti danno 500 € in più siccome sei delegato”. Litigo con lui. Ero negli uffici della DHL, tra i funzionari della DHL, del consorzio, della cooperativa e dei sindacati. Eravamo in tre delegati, ma non volevano parlare con gli altri due delegati, volevano parlare solo con me. Mi riempivano la testa, dicevano che io dovevo fare quel percorso, ma non c’era modo di convincermi. Gli dico: “Va bene”. E in piena assemblea sindacale mi dimetto. E dico: “guardate che io mi dimetto oggi come delegato perché loro hanno un obiettivo che non è il mio. E quindi io da oggi non voglio fare il delegato, non voglio più essere tesserato con la Cgil”. E mi sono dimesso. Quindi mi sono venuti addosso come… Mi hanno spaccato la macchina, tagliato le gomme, spaccato il parabrezza. Mi hanno aperto la casa. Mi hanno fatto di tutto di più. Di tutto e di più. Mi avevano isolato in un reparto dove lavoravo solo io. E poi quel reparto va avanti, si ingrandisce, iniziano a lavorarci altre due persone. E io da lì inizio a cercare un’altra organizzazione sindacale per tesserarmi, sono andato a informarmi un attimo e poi mi sono iscritto al SI Cobas. Ho incontrato Aldo Milani al bar per parlare con lui. E quindi da lì è partito tutto. Mi sono iscritto io solo su 375 operai. E piano piano sono riuscito anche a… Perché dentro al lavoro ero un
punto di riferimento per i lavoratori.

D.: Ma gli altri lavoratori erano soprattutto immigrati? Oppure metà italiani, metà immigrati?

R.: Il 90% era immigrato, di cui il 70-80% rumeni. I rumeni non sono dei bravi lottatori. Non so per quale motivo, perché forse il regime del comunismo è caduto recentemente, hanno avuto una brutta esperienza… E quindi erano predisposti ad accettare di tutto. Di tutto e di più, tra cui molestie sessuali, ricatti… Ad esempio tu prendevi 1000 €, ma dovevi dare una parte del tuo salario al capo magazzino o al capo reparto, per continuare a lavorare. Però c’era un malessere totale dei lavoratori. E io – non so per quale motivo, non te lo so dire – mi ritrovai a essere il punto di riferimento di tanti di questi lavoratori. Nonostante io non contassi nulla, mi ritrovai a dare consigli. E poi da lì, piano piano, ho cominciato a iscrivere i lavoratori al SI Cobas. A un certo punto c’erano 57-60 lavoratori iscritti su 375. Decisi di fare l’assemblea sindacale, ma non me l’hanno lasciata fare all’interno, ho dovuto farla fuori. Ho detto: “io sono un lavoratore, c’è un esterno che viene, la faccio io con i tesserati”. Sono riuscito a convincerli che noi non usciamo, ho aspettato il momento di boom del lavoro, c’era un controllo dei tedeschi, e ho detto: “se non mi fate fare l’assemblea, noi 60 ci fermiamo”. Mi dicono: “ok, falla all’interno, ma un esterno non entra”. E così ho iniziato a fare le assemblee interne. E poi il numero cresce, il numero cresce, finché a un certo momento decisi di far fare lo sciopero per cambiare la situazione. Questo è l’andazzo. E ho fatto lo sciopero all’interno. Ho fatto uno sciopero di tre giorni.

D.: Che anno era più o meno?

R.: C’è voluto tempo, era il 2012. Due anni dopo… E quindi lì ho fatto lo sciopero, ho fatto tre giorni di blocco alla DHL. Ma gli attivisti veri, che erano disposti a combattere, erano pochi, perché ricordo che anche il primo giorno, dopo 4-5 ore di sciopero, eravamo circa una quindicina davanti ai cancelli. Però eravamo convinti: o la va, o la spacca.

D.: Quando dici sciopero partecipavano tutti i lavoratori? O solo questi 15?

R.: No, no. All’inizio ho dovuto fare un lavoro di 15-20 giorni con degli esterni che ci appoggiavano, soprattutto col centro sociale Vittoria. Abbiamo avuto degli esterni che ci hanno appoggiato e abbiamo fatto lo sciopero. Abbiamo fatto tre giorni di sciopero e la DHL è andata in tilt. Abbiamo fatto il picchetto, rischiando di tutto e di più. Ci sono state delle denunce. Però, comunque, per andare a lavorare loro hanno dovuto cedere. Quindi ci siamo seduti al tavolo, abbiamo sistemato tutti i contratti. E questo è costato circa 2 milioni e mezzo di euro. Perché? Perché non c’era un contratto, non c’era niente. Dovevi lavorare e a fine mese prendevi quei soldi che ti davano. Quello che ti davano prendevi: non c’era straordinario, non c’erano ferie, non c’era la tredicesima, non c’era niente. Era nel 2012, in autunno o all’inizio dell’inverno. E quindi da lì hanno cercato di regolarizzare un po’ la situazione, obbligando il consorzio della cooperativa a tenere una certa linea. La situazione era migliorata e quindi c’era una certa adesione, una consapevolezza che se continuavamo così, riuscivamo a risolvere i problemi. Come mossa strategica la DHL decide di dividere i lavoratori in varie società, perché così la parte più combattiva veniva messa in un contenitore diverso. Così se rompono le scatole, rompono le scatole solo in un magazzino, mentre gli altri due funzionano. Quindi come mossa strategica cercano di isolarmi dall’insieme degli altri lavoratori. Mi dicono: “No, tu sei di una società e loro sono di un’altra società, per cui non puoi parlare con loro”. “Sì, ma siamo tutti i lavoratori dentro un magazzino e quindi qui facciamo un’assemblea. Non c’entra niente se il lavoratore X è di un’altra società, può partecipare alle assemblee”. Per disgrazia sono andato in vacanza, ho avuto problemi di passaporto nel mio paese e sono rimasto più del dovuto. Quindi la mia società mi ha licenziato, perché avevo un mese di vacanza, invece sono rimasto di più. Ritornando verso il mio posto di lavoro. È stato lì che Aldo mi ha detto di venire a occuparmi del sindacato a tempo pieno. È stato da quel momento che ho iniziato a fare questa attività a tempo pieno.

D.: Così hai iniziato a organizzare altri lavoratori…

R.: Sì, poi ho organizzato un sacco di lavoratori a livello territoriale. Mi occupo di Milano. Parliamo di 5-6000 lavoratori auto-organizzati. Siamo partiti con lo sciopero, con il picchetto duro, rischiando tutto, perché era l’unico strumento che ci poteva aiutare a risolvere i problemi. Abbiamo subìto degli sgomberi, delle denunce, dei permessi di soggiorno bloccati, di tutto e di più. Però siamo ancora qui a raccontarlo.

D.: Hai il permesso o la carta di soggiorno?

R.: La carta di soggiorno. Per fortuna perché… Ho avuto il permesso di soggiorno nel 2003. Quando ci sono state le prime carte di soggiorno imposte dall’Unione Europea all’Italia, io avevo una domanda di rinnovo del permesso di soggiorno pendente, e da lì mi hanno dato la carta. Avevo più di cinque anni di residenza continuativa e mi hanno dato la carta di soggiorno.

D.: In questi anni hai organizzato solo lavoratori della logistica o hai organizzato lotte anche in altri settori?

R.: Sì, ho organizzato dei lavoratori che si occupavano di rifiuti. La battaglia più dura che abbiamo fatto all’inizio è stata quella. Alla DHL abbiamo fatto quasi quattro mesi di sciopero davanti ai cancelli. Lì c’era la polizia, la Digos, il prefetto, il tribunale, tutto… Ma abbiamo organizzato lo sciopero. Quella, comunque, era una battaglia che ha preso piede e che ha sensibilizzato la maggior parte dei lavoratori. Poi nel SI Cobas ci sono dei lavoratori della sanità, degli infermieri… Da tutti i settori. Adesso ci sono i metalmeccanici…

D.: Negli altri settori state organizzando soprattutto lavoratori immigrati, o ci sono anche lavoratori italiani che iniziano a chiedere di sostegno?

R.: Anche lavoratori italiani. Non ho mai avuto l’attitudine di dire che io devo lavorare solo nel settore degli immigrati. Per me lo sfruttamento è qualcosa di sbagliato, sia nei confronti di un italiano, sia nei confronti di un immigrato. È qualcosa da combattere, è un’ingiustizia sociale contro cui ribellarsi. Non ho mai fatto distinzione tra un italiano o un immigrato. È vero però che gli immigrati hanno più necessità. Ce ne sono di italiani. Certe volte trovi anche dei bravi lavoratori italiani che sono consapevoli di quello che fanno, che combattono. Però la macchina trainante sono gli immigrati.

La redazione de “Il Cuneo Rosso” (vedi qui; per contattare la redazione l’indirizzo di posta electronica è il seguente: com.internazionalista@gmail.com)


Interventi di Papis al corteo anti-capitalista e internazionalista del 1° maggio: 10.000 lavoratori e lavoratrici per le strade di Milano si sono ripresi questa storica giornata di lotta del movimento operaio mondiale, manifestando per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e contro la repressione:


In qualità di coordinatore del S.I Cobas di Milano, Papis era già stato intervistato dalla squadra della trasmissione televisiva Report per la puntata “Il pacco, la società del futuro” andata in onda su Rai Tre l’11/12/2017:

http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-4ea0a351-3659-44fb-908e-c2f5d47348f6.html