Approfondimenti politiciCobasInternazionale

[ANALISI] La pandemia da coronavirus lacera il tessuto dell’industria d’abbigliamento in Asia

La crisi capitalistica si abbatte sulle operaie e gli operai asiatici del tessile-abbigliamento

La doppia crisi da coronavirus, sanitaria ed economica, mette a nudo ovunque le profonde contraddizioni del sistema capitalistico, e la condotta anti-umana dei capitalisti, che per non interrompere il flusso dei profitti ha alimentato la propagazione del virus provocando migliaia di morti in diverse provincie industriali, con la complicità del Governo, dei suoi prefetti che hanno acconsentito alla riapertura di attività non essenziali, e delle amministrazioni regionali, Lombardia in testa.

Nei due pezzi che pubblichiamo sono esaminati i riflessi di questa crisi sui proletari di diversi paesi asiatici. Il blocco delle attività commerciali in Europa e Stati Uniti comporta la disoccupazione per milioni di lavoratrici e lavoratori del settore tessile-abbigliamento in Asia, molti dei quali privi di ogni ammortizzatore sociale, spesso ridotti alla fame e oggetto di sfratto, nell’indifferenza delle multinazionali committenti (Zara, H&M, Primark, Benetton, Stefanel e tutti gli altri marchi del fashion), cariche di miliardi di profitti accumulati sul sudore di milioni di proletari.

La sola Inditex, controllante di Zara, ha realizzato € 3,4 miliardi di profitti nel 2018, pari a 10 mesi di salario per 3 milioni di lavoratrici dell’abbigliamento di un paese come il Bangladesh.

H&M ha realizzato € 9,6 miliardi di profitti negli ultimi 5 anni.

Ma le multinazionali della moda si guardano bene dall’assumersi qualsiasi responsabilità per la sopravvivenza di chi ha prodotto la loro ricchezza.

Il SI Cobas è impegnato a rafforzare i legami di solidarietà e di lotta con i lavoratori di questi paesi e di tutto il mondo.

SI Cobas


La pandemia da coronavirus lacera il tessuto dell’industria dell’abbigliamento in Asia.
Si prospettano enormi perdite di posti di lavoro e tagli del PIL, mentre H&M e altri marchi bloccano gli ordini.

Nikkei Asian Review, di SHAUN TURTON e PHORN BOPHA, 3 aprile 2020

PHNOM PENH — Chul Sreymom, 40 anni e sarta della fabbrica di Sangwoo vicino a Phnom Penh, da quando ha iniziato a lavorare ha confezionato abiti per alcuni dei più grandi marchi di moda del mondo.

Ma questa settimana 60 dei suoi colleghi sono stati mandati a casa mentre il lavoro della Sangwoo diminuiva drasticamente – ed ora teme che lei sarà la prossima a dover lasciare la fabbrica.

“Non so cos’altro posso fare. Lavorare in una fabbrica di abbigliamento è quello che ho fatto per tutta la vita”.

Chul è una dei milioni di lavoratori dell’industria asiatica a basso salario dell’abbigliamento per l’export, il cui sostentamento è messo a rischio a causa della pandemia da coronavirus.

Quattro mesi dopo la comparsa del virus nella città cinese di Wuhan, esso ha scatenato una crisi senza precedenti per gli esportatori di abbigliamento asiatici che, grazie alla rapida globalizzazione dell’ultimo decennio, impiegano milioni di lavoratori e contribuiscono a sostenere alcune delle economie più fragili del mondo.

I problemi sono iniziati a febbraio con la carenza di forniture di tessuti quando il virus ha colpito il settore tessile cinese che conta un giro d’affari di 250 miliardi di dollari.

Ma proprio quando la Cina ha riavviato la produzione – dando alle fabbriche di abbigliamento la speranza di rimettere in carreggiata le attività – la domanda è crollata poiché le serrate in tutto il mondo hanno costretto i rivenditori a chiudere le porte e la popolazione a dare priorità ai prodotti di prima necessità.

La crisi sta colpendo perché il settore stava già affrontando la prospettiva di una globalizzazione che va in retromarcia, con le crescenti preoccupazioni dei consumatori per gli standard lavorativi e i marchi di moda occidentali che stavano facevano maggiore affidamento su catene di fornitura più brevi e più vicine territorialmente.

“Abbiamo un flusso di cassa pari a zero e i committenti non stanno mantenendo gli obblighi contrattuali” afferma Ken Loo, segretario generale della Garment Manufacturing Association in Cambogia.

“Quante aziende pensate possano sopravvivere a lungo con un flusso di cassa pari a zero?

Anche le maggiori compagnie aeree del mondo hanno annunciato che potrebbero andare in bancarotta senza il sostegno economico del governo.

Questo è quello che stiamo affrontando”.

È una storia altrettanto triste in tutta la regione, dove migliaia di fabbriche sono state parzialmente o completamente chiuse.

Il 6 marzo, mentre il coronavirus infligge un duro colpo all’industria dell’abbigliamento nella regione di Yangon, in Myanmar, i lavoratori occupano una fabbrica di abbigliamento recentemente chiusa per chiedere il loro stipendio e il pagamento degli straordinari.

“Tutti gli ordini sono stati cancellati” dice Mostafiz Uddin, proprietario di una fabbrica in Bangladesh dove si stima che circa 3 miliardi di dollari in contratti siano stati sospesi o annullati e che più di 1 milione di lavoratori siano stati licenziati o messi in congedo non retribuito.

In Indonesia più di 3 milioni di lavoratori lavorano nel settore tessile.

“La domanda è in forte calo” dice Jemmy Kartiwa, presidente di un’associazione tessile del Paese.

In Vietnam un ente dell’industria tessile ha stimato che il loro settore potrebbe subire un colpo da 467 milioni di dollari.

In Myanmar almeno 20 fabbriche si sono fermate per la carenza di tessuto e si teme se ne fermino molte altre a causa dell’emergenza Covid19 e poi sarà davvero una questione di sopravvivenza, ha detto Khin Maung Aye, presidente e fondatore di una fabbrica di giacche e camicie nella quale lavorano 10.000 dipendenti a Yangon: “Se sopravvivi ora, tornerai di nuovo”, ha detto al Nikkei Asian Review, aggiungendo che la perdita di posti di lavoro era inevitabile.

La sopravvivenza, tuttavia, è tutt’altro che garantita per i produttori che operano con margini esigui e spesso a condizioni di pagamento alla consegna.

Alcuni marchi, tra cui H&M e Zara, si sono impegnati a pagare per intero gli ordini esistenti. In una dichiarazione, H&M e la controllante di Zara, Inditex, hanno affermato che la “situazione emergenziale” ha reso necessaria una sospensione per i nuovi ordini ma hanno anche assicurato che “l’impegno a lungo termine nei confronti dei fornitori verrà mantenuto”.

Altri marchi, tuttavia, hanno fatto scattare clausole di “forza maggiore”.

In una lettera di annullamento presumibilmente da parte della C&A europea destinata ai fornitori, si legge che la “situazione straordinaria” aveva “cambiato materialmente… se non annullato” i presupposti degli ordini.

Questo negozio H&M di Parigi è chiuso a causa del lockdown da Covid19.

L’azienda, a differenza di molti altri, ha comunque garantito gli ordini esistenti per i fornitori di abbigliamento.

“Di conseguenza, non ci si può più ragionevolmente aspettare che le parti rispettino e/o mantengano gli accordi presi”, si legge ancora nella lettera.

In una email al Nikkei Asian Review, il portavoce di C&A Jens Volmicke ha definito la lettera una “misura precauzionale” in tempi di crisi che giustifica la chiusura dei suoi 1.400 negozi sparsi in Europa: “Stiamo lavorando duramente per ridurre al minimo l’impatto sui nostri fornitori e intendiamo farci carico di tutte le merci che sono state già spedite. Siamo in stretto contatto con i nostri fornitori per trovare accordi flessibili e individuali anche per i capi attualmente in produzione. Il nostro obiettivo è quello di prendere in consegna il maggior numero di ordini commercialmente possibile”.

“C’è un effetto domino che fa davvero molta paura” – ha detto Hertzman – “Non si tratta solo della chiusura dei negozi e della rapidità con cui si riapriranno. Si dovrà fare fronte a ingenti danni e conseguenze che sarà molto difficile gestire”.

I sostenitori dei lavoratori stanno già condannando queste mosse.

Human Rights Watch ha esortato i marchi a non “abbandonare gli operai nelle fabbriche”.

La coordinatrice della campagna “Clean Clothes Campaign”, Christie Miedema, ha detto che i marchi hanno una responsabilità nei confronti di coloro che lavorano nel settore.

“Hanno approfittato di questa manodopera a basso costo per decenni senza pagare la previdenza sociale”, ha detto al Nikkei Asian Review.

“Quel profitto deve essere redistribuito ai lavoratori ora perché in molti di questi Paesi non c’è la previdenza sociale e non c’è nessun ammortizzatore economico al quale i lavoratori possano attingere”.

C’è anche una crescente preoccupazione per la diffusione del coronavirus a livello locale.

Il Bangladesh e il Vietnam hanno già messo in atto misure di blocco, mentre in Cambogia 91 fabbriche di abbigliamento hanno sospeso la produzione causando la perdita di 61.500 posti di lavoro e chi è ancora in grado di lavorare teme di contrarre il virus, dicono i leader sindacali.

Dal punto di vista economico, la crisi del coronavirus supera di gran lunga tutto quello che l’industria dell’abbigliamento ha affrontato in passato, anche perché nessuno sa quanto durerà.

Edward Hertzman, editore della pubblicazione dell’industria tessile Sourcing Journal, ha detto che la cancellazione unilaterale o la riscrittura dei contratti potrebbe sollevare grossi problemi legali per quanto riguarda sia le fabbriche sia i loro creditori.

Esportazione di abbigliamento, calzature e prodotti da viaggio Capital Economics (CE), con sede a Londra, prevede una contrazione dell’economia globale del 2,5%.

Sottolineando che si tratta del “tasso di crescita più debole dalla seconda guerra mondiale”, Gareth Leather, economista senior del team emergente di CE in Asia, ha dichiarato che i Paesi produttori tessili sono particolarmente vulnerabili.

“Nel Regno Unito, alcune delle grandi aziende commerciali [sono] preoccupate per la propria sopravvivenza.

Non sono così preoccupate per la sopravvivenza di persone molto più in basso nella catena”, ha detto.

“[questa crisi] darà un duro colpo a queste economie, soprattutto se si considera la loro dipendenza in questo settore”.

Per la Cambogia, la pandemia ha inferto un secondo colpo al settore dell’abbigliamento che conta un giro d’affari di 10 miliardi di dollari e che impiega più di 800.000 lavoratori, dopo che l’UE a febbraio ha deciso di sospendere l’esenzione da dazi per i prodotti provenienti dalla Cambogia motivandolo con preoccupazioni per i diritti umani.

Con l’industria del turismo in difficoltà, la crescita del PIL del Paese potrebbe scendere dal 7% dell’anno scorso all’1% del 2020 come previsto dalla Banca Mondiale nelle sue più recenti previsioni economiche.

La crescita del Vietnam nel 2020 dovrebbe scendere dal 7% al 4,9%, quella del Myanmar dal 6,3% al 3% e quella dell’Indonesia dal 5% al 2%.

La forte dipendenza di queste economie dall’industria dell’abbigliamento deriva dal ritmo accelerato della globalizzazione dopo la crisi finanziaria globale, secondo Sheng Lu, professore associato presso il dipartimento di studi di moda e abbigliamento dell’Università del Delaware (Usa): “Mentre Cambogia, Vietnam, Myanmar, Indonesia e Bangladesh erano piccoli attori nel commercio mondiale dell’abbigliamento già nella crisi finanziaria globale del 2009, questi Paesi assumono oggi centinaia di migliaia di lavoratori.

La posta in gioco non è mai stata così alta”. Inoltre, l’industria dell’abbigliamento cambogiana deve far fronte a chiusure generalizzate.

Lu, che ha analizzato l’impatto di Covid-19 sul commercio di abbigliamento su tre scenari, ha detto che la Cina, essendo il più grande produttore tessile del mondo, sarebbe stato il Paese più duramente colpito dato che gli acquirenti statunitensi e dell’UE annullano gli ordini di grandi volumi.

Ha previsto che il Vietnam, con un mercato di esportazione più diversificato, avrà una certa flessibilità e si troverà in una “posizione migliore”.

Il Bangladesh, tuttavia, come fornitore leader sia per l’Europa che per l’America, sarebbe stato “colpito in modo significativo”.

I rapporti hanno stimato che il Paese potrebbe perdere fino a 6 miliardi di dollari in entrate da esportazioni di abbigliamento.

La perdita di posti di lavoro colpirà duramente in tutti i settori, ha detto Lu, stimando che un calo del 10% delle esportazioni si tradurrebbe in un calo di almeno il 4-9% dell’occupazione.

“Nei Paesi in via di sviluppo come il Bangladesh e la Cambogia, il settore dell’abbigliamento è quello che ha il maggior numero di posti di lavoro per l’economia locale, soprattutto per le donne”.

Una ricerca pubblicata questa settimana dal Penn State’s Center for Global Workers’ Rights, cita un’indagine su 316 fornitori in Bangladesh, un Paese con circa 4,1 milioni di lavoratori del settore dell’abbigliamento.

In un sondaggio condotto tra il 21 e il 25 marzo, più della metà degli intervistati ha riferito che la maggior parte dei loro ordini è stata annullata.

Gli acquirenti si sono rifiutati in gran parte di pagare i costi di produzione e le materie prime già acquistate.

In quasi il 60% delle fabbriche coinvolte nel sondaggio si è evidenziata la necessità di chiudere la maggior parte o la totalità delle attività, mentre più del 70% dei lavoratori mandati a casa sono senza alcuna retribuzione.

“I lavoratori non hanno cibo se non hanno soldi”, ha detto Nazma Akter presidente della Sommilito Garments Sramik Federation in Bangladesh, che conta più di 100.000 membri.

“Il Bangladesh ha 160 milioni di persone. È un piccolo Paese ad alta densità di popolazione. Se non proteggiamo i lavoratori, sarà un disastro”.

Il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha recentemente annunciato un pacchetto di 588 milioni di dollari per il settore delle esportazioni che ha un giro d’affari di 40 miliardi di dollari, di cui l’84% è costituito da capi di abbigliamento.

Hasina ha chiesto alle aziende di destinare il denaro per pagare i lavoratori.

In Cambogia, il governo ha annunciato esenzioni fiscali per le fabbriche in difficoltà e ha proposto un regime di sussidi salariali del 60% per i lavoratori in congedo non retribuito, con il 20% pagato dal governo e il 40% dalle fabbriche.

Un portavoce del Ministero dell’Economia e delle Finanze cambogiano ha detto che sono in cantiere altre misure.

“Ci serve solo un po’ più di tempo” ha detto.

Tuttavia, sono già emersi dubbi sulla fattibilità anche delle misure già annunciate, data la minaccia attuale per i fornitori.

L’economista Gareth Leather di CE avverte che i governi dei Paesi in via di sviluppo semplicemente non hanno la forza finanziaria per salvare l’industria.

La rapidità con cui l’industria dell’abbigliamento potrà riprendersi dipende in primo luogo da quando il virus verrà messo sotto controllo, con progressi che possono variare da Paese a Paese.

Lu afferma che se la domanda migliora, il volume del commercio mondiale di abbigliamento potrebbe “riprendersi abbastanza rapidamente” e aggiunge come “durante la crisi finanziaria globale del 2008, il valore delle esportazioni mondiali di abbigliamento è sceso del 12,8% nel 2009.

Tuttavia, il tasso di crescita è rapidamente salito all’11,5% l’anno successivo”.

Ma gli importatori e le fabbriche di abbigliamento dovranno probabilmente affrontare la carenza di manodopera, l’aumento dei prezzi delle materie prime e la mancanza di capacità produttiva, sostiene Lu.

Hertzman, del Sourcing Journal, si è spinto ancora più in là, dicendo che il settore sta affrontando una “resa dei conti”: “Sia che si prendano in considerazione le fabbriche di primo o secondo livello, sia che si prendano in considerazione i rivenditori e i grossisti, questo settore sarà uno dei più colpiti perché anche in un mercato in ripresa con una forte economia, le difficoltà si faranno sentire. Il panorama non sarà mai più lo stesso”.

A questo report hanno contribuito i corrispondenti dello staff del Nikkei Asian Review Yuichi Nitta a Yangon ed Erwida Maulia a Giacarta.

(Traduzione di Gaia Sartori Pallotta, attivista e sociologa)