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[ANALISI] I lavoratori sindacalizzati vengono licenziati: repressione e Coronavirus nel Sud-Est asiatico

Pubblichiamo questa nota “I lavoratori sindacalizzati vengono licenziati” redatta da Labor Notes, già disponibile sul loro sito.

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


I lavoratori sindacalizzati vengono licenziati
(17 aprile 2020 / Andrew Tillett-Saks)

Mentre i lavoratori di tutto il mondo cercano la sicurezza fisica ed economica nella
pandemia, alcuni proprietari di fabbriche nel Sud-est asiatico vedono l’opportunità
di attaccare i sindacati per aumentare i loro profitti.

Il 28 marzo la fabbrica di abbigliamento Myan Mode a Yangon, Myanmar, ha licenziato in modo permanente tutti i 520 membri sindacali che lavoravano nella fabbrica e ha trattenuto i salari di marzo, giustificandosi con una diminuzione degli ordini dovuta a COVID-19.

Ma i proprietari, con sede in Corea, hanno mantenuto al lavoro tutti i 700 dipendenti non sindacalizzati e la fabbrica continua a funzionare.

Il sindacato dei lavoratori di Myan Mode è uno dei più forti nel settore dell’abbigliamento del paese, con una storia di scioperi militanti per migliorare i salari e le condizioni.

Per il dirigente sindacale Maung Moe, i licenziamenti palesemente discriminatori inviano un messaggio chiaro: “Vogliono liberarsi una volta per tutte del nostro sindacato, delle nostre voci, dall’obbligo di trattarci come esseri umani”.

Ha aggiunto: “Vedono il coronavirus come un’opportunità per cavarsela”.

I licenziamenti sono arrivati pochi minuti dopo che i leader sindacali tenessero un incontro controverso con i dirigenti, in cui i lavoratori hanno chiesto la fine degli straordinari obbligatori a causa della loro paura di contrarre COVID-19.

Poco dopo, il management ha annunciato l’immediato licenziamento di tutti i lavoratori sindacalizzati tramite gli altoparlanti di fabbrica.

Con molte fabbriche di abbigliamento in tutto il mondo che licenziano i lavoratori o
chiudono del tutto a causa della pandemia, molti militanti sindacali temono il proprio annientamento.

TATTICA DI SERRATE TEMPORANEE

Negli ultimi anni i datori di lavoro nel Sud-est asiatico hanno sempre più utilizzato
serrate temporanee di fabbriche per indebolire i sindacati. I proprietari hanno
chiuso brevemente la fabbrica solo per riaprire rapidamente con nuovi lavoratori
non sindacalizzati.

Spesso cambiando ragione sociale e prestanome per eludere le leggi sul lavoro, pur mantenendo le stesse principali produzioni.

Le lavoratrici di Myan Mode, per lo più giovani donne provenienti dai villaggi rurali (la forza lavoro dell’abbigliamento del Myanmar è composta per oltre il 90 percento da donne), si sono rifiutate di accettare i loro licenziamenti.

Da fine marzo, centinaia di lavoratrici sono in presidio permanente davanti alle porte della fabbrica, una tattica sindacale consueta in Myanmar: mangiano, dormono, cantano, sedute sulla terra infuocata dal sole con nient’altro che un telo di nylon per proteggerle dal sole caldo.

I proprietari hanno offerto un risarcimento per far accettare il licenziamento ed
abbandonare il presidio, infatti il numero delle presidianti è diminuito.

Ma uno zoccolo duro sta resistendo: sono un centinaio ed il 6 aprile si sono uniti alla lotta 40 lavoratrici non licenziate che hanno scelto di scioperare assieme a loro per solidarietà.

I ranghi dei presidi sono stati inoltre rafforzati dai lavoratori delle fabbriche di
abbigliamento vicine, membri della stessa federazione sindacale: la Federazione dei
Garment Workers Myanmar (FGWM).

Finora, il sindacato ha scelto di non bloccare fisicamente le porte della fabbrica per fermare la produzione: gli addetti alla sicurezza della fabbrica gli hanno intimato di non farlo e molti dei leader sindacali sono già stati denunciati per scioperi in altre fabbriche negli ultimi mesi.

Dopo cinque giorni di proteste, i proprietari hanno finalmente accettato di negoziare il 2 aprile, ma si sono rifiutati di reintegrare le lavoratrici licenziate.

PRESSIONE SUI BRAND

Imperterrito, il sindacato continua la sua protesta ed ha iniziato a fare pressione sui brand europei di alto profilo, i cui articoli sono prodotti nella fabbrica di Myan Mode.

I manifestanti hanno recentemente presidiato sia il consolato coreano che l’ufficio di conciliazione del lavoro in Myanmar.

Il 3 aprile, i proprietari della fabbrica hanno finalmente ceduto al pagamento dei salari di marzo delle lavoratrici licenziate, ma in molte rimangono al loro posto nel presidio per richiedere il reintegro.

“Se non riusciamo a riconquistare il nostro lavoro, non so come potremo nutrire noi stessi e le nostre famiglie”, ha detto Moe.

“Se non proteggiamo il sindacato in fabbrica, i salari non saranno sufficienti, il carico di lavoro ci distruggerà fisicamente e non ci saranno reti di sicurezza.

Non c’è futuro per noi senza il sindacato”.

Il salario minimo per i lavoratori dell’abbigliamento in Myanmar è di circa $ 3,50 al giorno.

Le lavoratrici della Myan Mode, attraverso diversi scioperi negli anni passati, hanno
conquistato circa $ 4,75.

Con un appartamento con una camera da letto, nelle aree industriali del Myanmar, che costa circa $ 100 al mese (anche i famigerati dormitori che spesso i datori di lavoro affittano ai lavoratori, in genere richiedono la metà del loro salario totale), un salario minimo richiederebbe un aumento ancora maggiore.

Secondo le lavoratrici, il sindacato viene preso di mira a causa del suo recente successo nell’affrontare condizioni di lavoro drammatiche.

Moe ha dichiarato: “Il nostro sindacato ha conquistato il diritto di lasciare la fabbrica quando ne abbiamo bisogno durante l’orario di lavoro, mentre prima non ci era permesso di uscire, reclusi letteralmente. Abbiamo anche imposto obiettivi di produzione più ragionevoli, per salvaguardare la nostra salute”.

Questa lotta è emblematica di tutte quelle di migliaia di persone in tutto il paese.
Mezzo milione di persone in Myanmar lavora nelle fabbriche di abbigliamento e
un’ondata di scioperi, nell’ultimo anno, ha aumentato il numero dei sindacalizzati a
circa 50.000.

Mentre in molti hanno salutato la crescita del settore come un segno dello sviluppo
economico del Myanmar, la dura povertà persiste: il salario minimo del Myanmar è quasi il più basso in Asia, l’aspettativa di vita è la più bassa del continente, nelle fabbriche si registrano molestie sessuali dilaganti ed i lavoratori vivono spesso nei bassifondi, in dormitori di proprietà dell’azienda.

In un paese con poca o nessuna rete di sicurezza e leggi sul lavoro deboli, il movimento sindacale nel settore dell’abbigliamento rappresenta la migliore speranza dei lavoratori per sfuggire alla vita nelle paludi e raggiungere qualcosa che assomigli a condizioni di vita dignitose.

La pandemia ha gettato l’industria dell’abbigliamento globale nel caos.

Molti attivisti hanno lanciato campagne per garantire che i marchi di moda paghino gli ordini che avevano già effettuato, per garantire che i lavoratori vengano pagati per il lavoro già svolto.

Ma i brand ed i proprietari delle fabbriche devono pagare molto più di questo.

Dobbiamo imporre il pagamento di tutti gli eventuali salari dovuti ed i sussidi in tutte le fabbriche chiuse, per alleviare le sofferenze immediate, ma dobbiamo difendere l’agibilità sindacale se vogliamo raggiungere condizioni decenti nel settore a lungo termine, in Myanmar ma anche negli altri paesi produttori di abbigliamento.

Andrew Tillett-Saks è un attivista sindacale con sede nel sud-est asiatico.

Una versione di questa storia era precedentemente apparsa sul sito web del Centro di solidarietà di AFL-CIO.

(Traduzione di AZ)