Poste Italiane spa è tra le principali aziende italiane: “La più grande infrastruttura in Italia. Operiamo nel recapito, nella logistica, nel settore del risparmio, nei servizi finanziari e assicurativi offrendo i nostri prodotti e servizi ai cittadini, alle imprese e alla pubblica amministrazione. Orientamento al mercato e centralità del cliente sono i due principi alla base della nostra struttura organizzativa. Canali commerciali e aree di business affiancano funzioni corporate a supporto dei processi di business” (da posteitaliane.it).
Poste dichiara: 129.000 dipendenti, 12.809 uffici postali e 35 milioni di clienti.
La proprietà e suddivisa tra pubblico e privato: Cassa Depositi e Prestiti 35.00%; Ministero Economia e Finanze 29.70%; Mercato 35.30% (da ilsole24ore.com).
In breve, Poste nel panorama italiano, è un colosso che produce utili per gli investitori. Dovrebbe aver compiuto da tempo il balzo per liberarsi dalla melma del carrozzone clientelare pubblico dei tempi antichi; quindi – la domanda sorge spontanea -, perché questa Montagna si ostina a produrre topolini mentre indulge a pratiche e comportamenti da padroni del vapore, impastati con toni da regime autocratico? Perchè mentre ostenta un’organizzazione al top cade su bucce di banane ad ogni svolta imprevista? Perchè l’apparato di prevenzione – nella realtà dei fatti – risulta essere inadeguato?
Facciamo un esempio concreto. La regione Lombardia nei giorni scorsi ha emesso un’ordinanza relativa alle misure urgenti di contenimento del contagio, inasprendo precedenti disposizioni nazionali, a causa della perdurante diffusione del virus sul territorio regionale. Nello specifico l’attenzione viene posta sul controllo dell’accesso dei dipendenti nei luoghi di lavoro; in tale contesto viene imposto ai datori di procedere alla rilevamento della temperatura corporea, al fine di consentire o negare l’accesso. L’ordinanza prevede che l’inadempienza a questo obbligo sia oggetto di sanzione. Quindi nessun dubbio è possibile: l’obbligo viene attribuito esclusivamente al datore, mentre al dipendente spetta un ruolo esclusivamente passivo.
Che hanno fatto invece i topolini delle Risorse Umane della macro Area Nord-Ovest di Poste? Nel fine settimana, prima della riapertura del 18 maggio, hanno pensato bene di diramare un comunicato a tutti i dipendenti della Lombardia col quale, con tono perentorio, si impone loro di controllarsi la temperatura – a casa in primis, o alla peggio, in ufficio – auto certificando il proprio stato di salute, prima dell’accesso al lavoro. Ci sarebbe da rimanere straniti di fronte a una simile trovata, ma decenni di lavoro postale e la conoscenza del funzionamento della “macchina” hanno fatto sì che non rimanessimo sorpresi.
In poche parole può essere andata in questo modo: forse il responsabile RU era in ferie, forse irreperibile al cellulare, forse qualcuno tra i vari assistenti, collaboratori, segretari/e si è trovato tra le mani alla vigilia del weekend questa ordinanza e, non sapendo come sbrigarsela, ha scelto la strada più ovvia del comunicato di imposizione a tutti i dipendenti scaricando su questi obblighi e responsabilità, in barba alle specifiche dell’ordinanza.
Potrebbe sembrare un episodio minore, persino banale, in realtà è un segnale chiaro della considerazione che Poste, i suoi dirigenti, hanno dei lavoratori: sciocchi, imbelli, privi di dignità e spina dorsale, pronti a piegarsi ad ogni singola imposizione, pur di non inimicarsi il capo di turno e rischiare ritorsioni o procedimenti disciplinari. Un pensiero che viene da lontano – dalla palude di cui parlavamo – che alberga nel profondo della coscienza dei dirigenti.
Un pensiero affatto balzano, che trova notevole corrispondenza nel sentire di molti dei dipendenti di Poste, quindi assolutamente naturale, involontario, persino logico. Non sappiamo quanti complessivamente abbiano aderito al diktat, siamo però certi che coloro che siamo riusciti a contattare tra i lavoratori hanno risposto picche a Poste, la quale ha fatto dietro front e si è allineata (o si sta allineando) all’ordinanza. La sostanza di questo episodio trova corrispondenza in molti altri ambiti nei quali viene riproposto lo stesso comportamento; la stessa superficialità, noncuranza, sottovalutazione della controparte.
La gestione della salute e della sicurezza in azienda è tra questi ambiti; Poste ha sempre operato in questo modo, sia nel corso della crisi da covid che in precedenza.
Prima del covid il tema salute e sicurezza ha visto all’opera un imponente apparato di tecnici e responsabili di ogni tipo che avrebbero dovuto azzerare il problema, garantendo il diritto alla incolumità a decine di migliaia di lavoratori. Così non è stato, per varie ragioni. L’apparato, soprattutto nei primi anni dal passaggio a spa – prima era inesistente -, è stato manchevole e inconcludente, non a causa di carenza di risorse ma spesso per insufficienza sul piano culturale. Siamo convinti di aver avuto un notevole ruolo nel far comprendere a Poste il significato del principio di difesa della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Già dai primi anni ‘90 infatti, con la nostra assidua presenza, con le decine di esposti alle asl ecc., abbiamo oggettivamente fornito delle chiare indicazioni nella messa a punto del sistema. Ma evidentemente non è bastato perché, se è vero che l’apparato ha prodotto molto materiale cartaceo, effettuato svariati corsi – il più delle volte generici e inutili -, è altrettanto vero che è mancata per anni – e sovente manca tuttora – un adeguato intervento sulla pratica quotidiana nei centri di lavoro.
Le decine di morti nel recapito ne sono la testimonianza, come lo sono la miriade di infortuni; come lo è, ancora, la gestione del problema amianto che perdura in modo endemico all’interno dei centri di lavoro postali (per Milano, vedi CMP Peschiera e CSI Linate).
Per chiarire meglio la nostra posizione su questo tema ed evitare equivoci: non abbiamo dubbi che questa situazione abbia anche almeno un’altra causa, probabilmente quella determinante, cioè la prevalenza dell’interesse economico aziendale rispetto a qualsiasi altra considerazione, ma di questo parleremo più avanti.
Col covid l’apparato, da buon topolino, ha dato il meglio di sé elaborando un aggiornamento del documento di valutazione rischi generico, teorico e poco rispondente alle reali necessità degli addetti nei vari settori lavorativi; in sostanza ha sbrigato una pratica amministrativa. In questo ha trovato degno riscontro nella propaggine dell’Organismo Paritetico Nazionale, il quale ha sfornato una serie di documenti in linea col succedersi delle direttive sanitarie governative, ma con poco o nullo riscontro nella realtà dell’applicazione concreta delle valutazioni di volta in volta espresse.
La ridotta chiusura degli uffici; i ritardi nella consegna dei DPI, delle sanificazioni di locali e dei mezzi; la carente riorganizzazione del lavoro nella sua complessità; l’indecisione dei preposti, la superficialità degli incaricati e – non ultima, purtroppo -, la sottovalutazione del problema da parte di un certo numero di dipendenti, hanno esposto per settimane i lavoratori ad un rischio inaccettabile.
Eppure Poste e sindacati hanno tenuto a sottolineare che il loro lavoro come OPN è stato decisivo nell’evitare la diffusione del contagio tra i postali; nello stesso tempo però non ne rendono pubblici i dati.
Oggi, in piena fase2, la ripresa dell’organizzazione del Delivery 2022, con i tempi e modi previsti, metteranno a dura prova la “fortuna” che fino ad oggi ha evitato ai postali un’ecatombe, speriamo che la dea bendata continui ad essere benevola.
Poste non è solo la mamma di tutti questi topolini, è anche la Montagna che ben conosce il ruolo che i governanti di questo paese le hanno assegnato, con successive, contraddittorie tappe, con lo sguardo puntato all’orizzonte del ruolo di SpA da una parte, e un occhio volto all’antica funzione di generatore di consenso politico-elettorale dall’altra.
Da qualche anno non ci sono più patemi d’animo, Poste è una SpA a tutti gli effetti (in realtà fa parte delle c.d. partecipate), col 35% di capitale sul mercato azionario (un aumento di questa quota, già preventivato, è stato congelato solo per contingenze di carattere politico) e con una nuova allure adeguata al nuovo status.
Poste è oggi un Padrone, è associata a Confindustria e i suoi dirigenti fanno il possibile per manifestare l’appartenenza a questa cerchia. Per inciso, per dimostrare che non siamo prevenuti (non lo siamo, semplicemente questi sono nostri antagonisti), segnaliamo che i Dirigenti di Poste hanno donato la metà del loro Bonus contro il Covid (notizia del trenta aprile sul portale di Confindustria). Detto di questa azione benemerita (beati loro che lo possono fare visto quanto guadagnano), cosa comporta questa nuova collocazione di Poste?
Non ci dilunghiamo in analisi teoriche, ci limitiamo a pochi significativi concetti espressi in modo elementare. Con la messa sul mercato di una quota del capitale aziendale (nella sostanza si è trattato di una parziale privatizzazione) e il contemporaneo svilimento del servizio pubblico, sono state delineati i principi cardine dell’attività aziendale: la finanziarizzazione nel suo complesso, la riduzione del servizio universale, la vocazione alla clientela business. Poste deve rendere conto agli azionisti dei propri risultati; l’organizzazione aziendale è stata resa efficiente, almeno nelle aspettative e nelle apparenze; i processi produttivi vengono scandagliati in ogni singolo aspetto per diventare più redditizi; la forza lavoro, alias i lavoratori, deve costare meno e produrre di più.
Da qui originano la serie degli interventi di riorganizzazione sia in ambito sportelleria che recapito. La costante che accompagna queste azioni è la riduzione del personale applicato, la sua precarizzazione, la riduzione del suo costo, l’aumento della sua produttività.
Il portato dell’insieme di questi interventi è rappresentato dallo stato attuale dell’azienda Poste, dei suoi utili da una parte e dal peggioramento sostanziale della condizione dei lavoratori dall’altra.
Ma questa analisi sarebbe incompleta se ci fermassimo qui, bisogna infatti confrontarsi con la pandemia, dal punto di vista sanitario certamente, ma soprattutto dal punto di vista economico, e quindi sociale.
Abbiamo più volte detto che le crisi sono connaturate al sistema capitalistico, l’ultima più evidente del 2008, ancora si trascina; ma la pandemia, secondo le previsioni, sta apparecchiando un pasto veramente indigesto per milioni e milioni di persone in tutto il mondo.
La sistematica perdita di posti di lavoro, già in atto, porterà ad una diffusa condizione di povertà, che già attanagliava vasti settori delle società economicamente sviluppate, comprese gli USA: “40 milioni di americani che vivono in povertà, 18,5 milioni in estrema povertà, e 5,4 milioni ai livelli di un paese del terzo mondo, secondo il rapporto ONU del 2018)”.
In Italia la situazione non è delle migliori, tutt’altro, secondo l’Istat: “Una buona fetta della popolazione italiana risulta a rischio povertà ed esclusione sociale. E’ quanto emerge dal rapporto dell’Istat sugli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile 2020. In Italia, nel 2018, la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale è pari al 27,3% (circa 16 milioni e 400 mila individui)” (16.05.2020 rainews.it).
Contemporaneamente è diventato sempre più facile precipitare in situazioni di emarginazione e indigenza per famiglie che si ritenevano parte della classe media.
La pandemia accelererà questi processi devastanti; chi governa sa che dovrà confrontarsi con una crisi sociale molto preoccupante con effetti di cui è difficile prevederne i risultati. Non è un caso che da settimane si parli della necessità di una pace sociale, dell’unità di tutti i ceti o classi per superare la crisi, per ripartire. Tutti uniti, padroni e poveri, in ragione del bene comune; è possibile accettare questo appello? Per noi decisamente no.
E’ il momento di rovesciare lo stato delle cose; far pagare la crisi ai padroni e non ai proletari, combattere un sistema che affama la stragrande maggioranza della popolazione mentre rende i ricchi sempre più ricchi. Un sistema contronatura, iniquo da ogni punto di vista.
Vi sarà da lottare perché verrà messo in campo (è già in campo) un apparato di controllo e repressione che cercherà di scardinare ogni forma di resistenza e di opposizione. Potremmo essere di fronte ad un passaggio che lascerà il segno nel corso della storia di questa epoca.
Ma perché rivolgiamo queste parole ai nostri colleghi delle poste? Cosa hanno a che fare i postali con tutto questo? Sentiamo già nell’aria argomentazioni simili a queste: “abbiamo il nostro stipendio mensile, la 13ma, la 14ma, il premio di risultato, riusciamo anche a fare straordinari, perché ci dovremmo preoccupare? Non è vero tutto quello che dite voi, la pandemia finirà, la crisi non ci sarà e tutto tornerà come prima”. Bene, se la pensate così vi facciamo i nostri sentiti auguri.
Se invece avete un pur minimo dubbio; se riuscite a capire i processi in corso senza assorbire in modo indiscriminato ciò che propinano i media di regime; se vi siete stancati dei sindacati filo padronali; se siete consapevoli che la vostra condizione reale di classe, la vostra posizione sociale, è la stessa di tutti i lavoratori salariati e dei proletari di tutto il mondo; se vi rendete conto, guardando al di là del vostro micro cosmo, di appartenere con questi ad un’unica comunità di destino; se avete capito che l’ascensore sociale si è inceppato, non sale più verso l’alto ma tende solo a scendere; se pensate sia necessario battersi per la giustizia sociale, allora vi chiediamo di unirvi a noi, lavoratori e proletari.
Come, attraverso quali strumenti, con quali iniziative, con quali organizzazioni politiche e sindacali, con quali obiettivi e parole d’ordine?
Siamo lavoratori delle poste, partiamo da questa condizione. Il virus ha portato alla luce una serie di contraddizioni che erano già presenti nel rapporto con Poste Italiane spa, evidenziandone il carattere di classe.
Poste in queste settimane e mesi non ha fatto – come dicono – tutto il possibile per difenderci dal contagio; Poste ha agito sulla base di un calcolo economico del pericolo di contagio in relazione alle necessità produttive determinate dalla pandemia. I clienti business hanno chiuso le attività e poste ha fatto altrettanto, in stretta correlazione numerica, sulla base del principio della domanda e dell’offerta.
Poste ha guardato ai bilanci, come una qualsiasi spa; avrebbe invece potuto ridurre molte più attività, chiudere in modo molto più marcato uffici o centri di lavoro, almeno nella fase più acuta, sottraendo migliaia di noi al rischio di contagio, ma non l’ha fatto. Si è giustificata ricorrendo alle necessità imposte dal un servizio pubblico essenziale che ha smantellato nel corso degli anni, sempre in nome del profitto.
Ci ha mandati allo sbaraglio, con tutte le mancanze e le omissioni che abbiamo vissuto sulla nostra pelle e che ancora non sono finite, perché il virus è ancora qui. Ora dicono che siano in una fase di normalità e che bisogna tornare in fretta a produrre; chi lo dice non lavora, sono i dirigenti e i sindacalisti collusi; costoro ovviamente non vogliono sapere la reale condizione che l’organizzazione del lavoro pre pandemia determina negli uffici; anzi, secondo costoro le attività postali sono a rischio minimo di contagio e di assembramento; sono riusciti a veicolare questa valutazione verso i preposti dal governo incaricati di valutare l’indice di rischiosità delle attività, chiudendo così il cerchio e ottenendo l’ufficialità delle loro valutazioni, quindi avanti tutta.
Noi dobbiamo partire da qui, dai posti di lavoro, tenendo ben fermo il principio che la salute personale e collettiva va messa al primo posto, che non si patteggia con nessun incentivo, né si svende per qualsiasi imposizione o minaccia disciplinare.
Se non siamo più che certi che le condizioni di lavoro sono sicure (ammesso che in questa fase possano esistere) non dobbiamo lavorare, dobbiamo fermarci e protestare in ogni modo possibile, chiamare le autorità sanitarie, fare esposti. Ancora, dobbiamo rifiutare straordinari, areole, dobbiamo restare in ufficio il meno possibile, lavorando con calma e attenzione; dobbiamo pretendere DPI efficienti, rinnovati; ambienti puliti e sanificati, lo stesso per mezzi e strumenti di lavoro.
Ma ancora non basta, in nome del recente passato (fase acuta virus), ma anche della attuale, imposta e presunta normalità, bisogna dimostrare a Poste e sindacati che non siamo pecore, che sappiamo quali sono i nostri interessi e quali quelli dei padroni.
Il 4 giugno quindi partecipiamo allo sciopero indetto dalle organizzazioni del sindacalismo di base.
Abbiamo ben presente le specificità del settore postale, ma pensiamo sia necessario fare uno sforzo per stabilire una relazione con la realtà economica, sociale e politica che abbiamo esposto sopra.
Questa operazione non richiede un particolare sforzo intellettuale perché temi quali: la difesa della salute e della sicurezza, la difesa dei diritti e della propria dignità, la difesa del salario, il contrasto al welfare aziendale; la lotta contro la precarizzazione, contro la riduzione dell’organico, contro l’aumento della produttività; per il controllo dei tempi e ritmi di lavoro, per l’adeguamento dei mezzi, per i trasferimenti dovuti, che interessano tutti i lavoratori delle poste, trovano infatti facile riscontro nell’analisi che abbiamo proposto, che ne individua le motivazioni e le origini.
Speriamo quindi che anche chi avesse un diverso approccio ai processi sociali e economici, pur vivendo nella stessa condizione di lavoratore salariato, possa condividere le motivazioni di questo sciopero.
Per concludere, pensiamo da sempre che il sistema economico e sociale nel quale viviamo si sia dimostrato nel lungo periodo non riformabile. Le “terapie” che nel corso dello scorso secolo hanno cercato di mitigare gli effetti del conflitto tra classi dominanti e classe operaia/proletariato si sono dimostrate alla fine insufficienti per sanare la inconciliabilità di interessi. L’illusione che queste politiche potessero garantire un miglioramento sostanziale e stabile della condizione dei subalterni è sfumata oramai da lungo tempo. Le crisi di sistema hanno ciclicamente spazzato gran parte delle conquiste acquisite con dure lotte dai lavoratori, riportando l’orologio della storia al punto di partenza. Pensiamo che siamo in presenza di uno di questi passaggi, e che la percezione che larghi strati di lavoratori hanno della loro condizione sia appunto illusoria.
Partendo da queste considerazioni quindi ci auspichiamo che questo sciopero possa essere un primo, piccolo segnale emesso dal mondo postale per legarsi all’azione di gruppi sindacali, organizzazioni politiche, collettivi, associazioni, singoli lavoratori e proletari, che stanno dando vita ad un movimento che porti alla creazione di un fronte unico di lotta anticapitalista.
Battiamo un colpo che ci siamo, è il momento anche per noi.
S.I. Cobas Poste