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[CONTRIBUTO] In questo 1° Maggio. Il futuro non appartiene a Draghi, Biden, Putin, Xi Jin Ping: ma alla rivoluzione

In questo Primo Maggio…

(Tendenza internazionalista rivoluzionaria)

Proletari italiani e immigrati, uniamoci per respingere l’attacco dei padroni e del governo Draghi!

Proletari di tutto il mondo, uniamoci per farla finita con un capitalismo sempre più caotico, feroce e insostenibile!

In questo 1° maggio un tema domina su tutti: il capitalismo è sempre più caotico, feroce e insostenibile. Non siamo noi, suoi irriducibili nemici, a dirlo, ma i fatti, e che fatti! È il capitalismo stesso, con lo “spettacolo” che ha messo in scena nel mondo intero, precipitandoci in una pandemia globale che ha già falciato tre milioni di vite e segnerà probabilmente l’avvio di un’era di pandemie. Dietro e sotto il covid-19 c’è una catastrofe ecologica che accelera sotto la spinta del saccheggio capitalistico della natura. A loro volta la pandemia e il disastro ecologico hanno innescato lo scoppio di una crisi economica globale, che ha già fatto centinaia di milioni di nuovi poveri e di disoccupati, non solo nei paesi dominati del Sud del mondo, ma anche in Europa e negli Stati Uniti.

Nel caos sanitario ed economico che ne è derivato, si sono acuite le spinte alla concorrenza internazionale tra Stati Uniti, Cina e UE, e quelle a livello regionale, mentre le spese belliche – tra le spese più dannose per l’umanità – stanno schizzando alle stelle. C’è il rumore e il tanfo di nuove guerre nell’aria, mentre la guerra agli emigranti, ai rifugiati e ai richiedenti asilo non si è fermata neppure un attimo.

In tutto ciò, nelle piazze di tutto il mondo non si vede altro che polizia, manganelli e repressione sempre più brutale contro le lotte degli operai, degli sfruttati, dei movimenti sociali. Così anche nell’Italia della “bellissima Costituzione” democratica polizia e squadre di mazzieri e vigilantes aggrediscono i picchetti operai del Si Cobas contro Fedex nel tentativo, respinto e fallito, di intimidire i dimostranti; all’Arcelor-Mittal, come in tanti altri posti di lavoro, i licenziamenti “disciplinari” colpiscono i lavoratori che osano sollevare critiche, anche minime, all’operato aziendale; nel pubblico impiego si inaspriscono per via amministrativa i limiti sempre più angusti al “diritto” di sciopero, com’è avvenuto in occasione dell’8 marzo nel settore scolastico. Mentre l’offensiva padronale, in un gioco di sponda con i sindacati collaborazionisti CGIL-CISL-UIL, punta a liquidare l’organizzazione indipendente dei proletari, ostacolando, con il ricatto del licenziamento, l’adesione dei lavoratori al sindacalismo di classe.

È questo l’autoritratto del capitalismo globale di oggi: un sistema sociale che ancora è capace di promettere miglioramenti della vita in Asia o Africa, ma irreversibilmente declina là dove è nato e dove rimane il suo centro di comando. E che trascinerà nel caos e nello scontro anche i paesi che ancora stanno ascendendo velocemente. Perché dalle élite del potere capitalistico, anzitutto quelle occidentali, possiamo aspettarci di tutto fuorché le dimissioni volontarie, fuorché accettino di non essere in grado di far progredire l’umanità.

Al contrario, tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Europa arriva la squillante promessa (la stessa del 2009): è stato solo un brutto, imprevedibile incidente. Tranquilli, torneremo a crescere! Anzi, siamo già tornati a crescere a ritmi da record, esultano negli Stati Uniti. I “miracolosi” vaccini e l’altrettanto “miracolosa” spesa in deficit trascinano in cielo gli indici di Wall Street. Godendo ancora (non per molto) del vantaggio di stampare moneta a piacimento, gli Stati Uniti di Biden hanno annunciato addirittura un piano di interventi “a favore dei lavoratori”: maggiori tasse sulle imprese e sull’1% dei più ricchi, sostegno monetario di massa alle famiglie dei meno abbienti e dei ceti medi. Lo stesso Biden, però, ha ammesso che si tratta di un’esca al veleno. Il senso del suo messaggio è: siamo costretti ad entrare in una competizione per la vita e per la morte con la Cina, e non possiamo sperare di vincere senza riportare un po’ di calma in un paese così polarizzato, così drammaticamente diviso lungo linee di classe, razziali e di genere, qual è l’America post-trumpiana. La spesa in deficit è solo un mezzo, il fine è la vittoria nello scontro di potenza con la Cina (e la rimessa sotto tutela dell’UE). Chi pensa che questa prospettiva non sfocerà in nuovi conflitti bellici e in una catena di disastri si sbaglia di grosso. La spirale della crescita infinita che il capitalismo yankee pretende di incarnare al massimo livello non è altro che la spirale della crescente distruttività, del crescente caos del modo di produzione capitalistico, che si avvita nelle sue contraddizioni diventando sempre più necro-capitalismo.

A sua volta l’UE stravolgendo le proprie regole precedenti, ha varato un grande piano di investimenti, il Recovery Fund, che aumenta esponenzialmente il debito di tutti gli stati e crea per la prima volta un debito europeo comune. A differenza di Washington, però, Bruxelles non può promettere gran che ai propri lavoratori neppure sul piano immediato. Deve anzi proseguire nella compressione dei salari e dei diritti perché altrimenti non riesce a competere con i due giganti, Usa e Cina. Ed ecco che il piano-Draghi, finalmente reso noto (in parte), ci dà un’idea precisa degli interessi su cui è strutturata la “ripresa”: 90 miliardi di euro su 100 andranno, per vie diritte o traverse, alle imprese, al capitale, 10 alla classe lavoratrice. L’aumento della disoccupazione, che è già un dato di fatto, esploderà dopo il 30 giugno. L’obiettivo fondamentale del piano è incrementare il più possibile la produttività delle singole aziende e del sistema Italia, così che l’Italia possa difendere con successo il suo posto al sole, saccheggiando il lavoro e la natura un po’ dovunque, dalla Libia al Libano, dall’Argentina al Mali al Bangladesh. Nulla di chiaro si dice, per ora, su chi dovrà pagare l’enorme debito varato in quest’ultimo anno, un debito che si cumula a quello precedente, ingentissimo – ma dietro l’angolo sono già in agguato altre controriforme delle pensioni, aumenti delle tasse dirette e indirette sui lavoratori, anni e anni di duri sacrifici per arricchire i creditori dello stato (banchieri, padroni di tutte le taglie, alti gradi della burocrazia di stato, dell’esercito, delle professioni).

Il mondo capitalistico post-pandemia si annuncia perciò più polarizzato, pericoloso per la salute della classe lavoratrice e per la vita della popolazione, denso di fattori di nuove crisi e di scontri bellici, di quello che esisteva prima della pandemia. In tutti i paesi, la massa del proletariato ancora non ne è consapevole, ma sperimenta giorno dopo giorno sulla propria pelle che il suo futuro e quello delle nuove generazioni è gravido di incognite, e la fatica e i dolori di oggi non preparano tempi migliori. Per tanti e tante il sogno di poter preservare il proprio lavoro e le proprie condizioni di esistenza aderendo in modo totale agli interessi delle imprese, mettendosi a disposizione senza riserve dei padroni e delle direttive statali, è destinato a trasformarsi in un incubo. Saranno soprattutto le donne, in specie le donne salariate, e gli immigrati, a sperimentare il peggio in materia di sfruttamento del lavoro e discriminazioni. Ma un settore molto più ampio della classe lavoratrice, anche nei paesi più ricchi, andrà incontro ad un peggioramento inatteso. E in America Latina, Africa e molti paesi dell’Asia il peggioramento avrà tratti catastrofici, preannunciati dal dilagare incontrollato della pandemia in India e Brasile.

La parte più combattiva e organizzata del proletariato è chiamata a prender coscienza del carattere crescentemente distruttivo del capitalismo, e a tracciare oggi una linea ferma di resistenza di classe per preparare la controffensiva di domani. Se in Occidente il vecchio movimento operaio è crollato su sé stesso, e se gli storici sindacati si sono istituzionalizzati e posti al servizio degli interessi aziendali e nazionali (com’è accaduto in Italia con Cgil, Cisl, Uil); si possono però cogliere i primi segni di risveglio della classe lavoratrice di nuova formazione negli scioperi avvenuti nelle aziende “di avanguardia”, Google, Amazon, RyanAir e, qui in Italia, nel settore strategico della logistica. L’uberizzazione del lavoro, questa nuova forma di schiavitù salariata sotto l’ingannevole apparenza del lavoro autonomo e del neutrale comando degli algoritmi, è sempre più messa sotto accusa da chi è finito, per mancanza di alternative, nella sua rete.

Del resto da almeno un decennio la sterminata massa dei proletari di tutto il mondo sta provando a misurarsi con i compiti della nuova fase storica aperta dalla grande crisi del 2008. I primi a farlo sono stati gli sfruttati e gli oppressi del mondo arabo nell’Intifada regionale degli anni 2011-2012, deviata dall’interno dalle forze islamiste e schiacciata nel sangue dai satrapi arabi protetti da Usa, UE e Russia, ma capace di riemergere nelle massicce proteste del 2018-2019 in Algeria, in Sudan, nel Libano – esplose contemporaneamente a quelle in Sud America (in Cile, in Colombia, etc.). Il terzo atto di questo risveglio è avvenuto lo scorso anno nel più centrale dei paesi del centro, nel più imperialista dei paesi imperialisti, gli Usa, con la nascita di un impetuoso movimento composto da giovani neri (in prima fila), bianchi, latino-americani, asiatici – l’intero mondo del proletariato internazionale concentrato in un solo paese. Quello stesso proletariato multirazziale e multinazionale che anche qui in Italia, da dieci anni, sta suonando la sveglia ai lavoratori autoctoni, e a chi ha sangue nelle vene, con gli scioperi dei driver e dei facchini della logistica. Non meno significativo, benché al momento in riflusso, è stato il ritorno in campo, con spinte più radicali e classiste di un tempo, del movimento mondiale delle donne partito dalle due Americhe, e il pullulare qua e là nel mondo della protesta giovanile ecologista, anche se ancora gravata da illusioni verso i poteri costituiti.

Noi compagne/i della Tendenza internazionalista rivoluzionaria ci sentiamo parte di questo processo internazionale che in modo irregolare e sussultorio vede affacciarsi in campo il proletariato e le classi oppresse, come nel caso del grande movimento dei contadini poveri dell’India. E, benché sia attualmente in Italia il nostro principale ambito di intervento, ci sentiamo in obbligo di moltiplicare il nostro impegno per tessere reti di conoscenza e di cooperazione con tutte le forze che sono realmente in campo, in modo conseguente, contro il capitale, e hanno nel loro programma l’uscita rivoluzionaria dalla crisi storica del capitalismo e l’instaurazione del potere sovietico nel mondo.

Qui rivendichiamo in pieno l’azione compiuta negli ultimi due anni per avvicinare e collegare tra loro, insieme con il SI Cobas, le lavoratrici e i lavoratori combattivi unendoli su una piattaforma di lotta che rifletta le necessità del proletariato in tutte le sue componenti e aspirazioni. Sappiamo che è un processo ancora molto embrionale e limitato, a rischio di rinculi. Ma – nel mentre fissiamo, passo dopo passo, il nostro impianto strategico e tattico facendo tesoro dell’enorme esperienza accumulata dal movimento comunista – ribadiamo in questo 1° maggio il nostro essere interni, costi quel che costi, agli sforzi da pionieri che alcune decine di migliaia di proletari immigrati stanno facendo per l’intera classe. Il loro coraggio, la loro determinazione, il loro sentimento collettivo di appartenenza alla classe operaia, e la forza con cui stanno respingendo il tentativo delle multinazionali della logistica, FedEx in testa, di ributtarli indietro in un sistema semi-schiavistico come quello da cui si erano liberati con le loro battaglie, sono un esempio che il governo Draghi sta cercando in ogni modo di soffocare. E che invece va difeso, raccolto e generalizzato in una prospettiva di lotta che non può essere semplicemente economica, ma è già diventata lotta politica, e ancor più lo diventerà assumendosi il compito di sbarrare il passo all’“era Draghi”. La parte più combattiva della classe operaia deve riuscire, e riuscirà, a parlare a tutta la classe, a tutti/e gli/le oppressi/e, a pensare in grande, senza farsi deviare o frenare dai localismi, da economicismi, da miopi rifiuti della dimensione anche teorica della battaglia anti-capitalista.

Il futuro non appartiene al capitalismo, al razzismo, al sessismo, al militarismo. Non appartiene ai Draghi, ai Biden, ai Macron, ai Putin, ai Xi Jin Ping. Il futuro appartiene alla rivoluzione sociale internazionale del proletariato e degli oppressi!

1° maggio 2021