Riceviamo e pubblichiamo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso questo contributo, già disponibile sul loro sito (vedi qui):
Dopo Draghi:
molte incognite, due sole certezze
E dunque il nuovo uomo della provvidenza, acclamato dalle élite occidentali, da sindaci, da rettori, da Confindustria, dalla ‘grande’ stampa e pregato di restare al suo posto di comando anche da Landini, neanche lui ce l’ha fatta. Le conflittuali, incontrollabili pulsioni di sopravvivenza (o di volontà di riscossa) di quel pulviscolo di aggregati di interessi privati cui si sono ridotti i partiti parlamentari hanno fatto cadere il “governo di unità nazionale” capitanato da Draghi e fortemente voluto da Mattarella e dai grandi potentati nazionali e occidentali.
Ridurre la crisi di governo ai rigurgiti di un “ceto politico” italiano impazzito sarebbe, però, fuorviante. Come per la nascita e la morte del Conte-1 e del Conte-bis, infatti, la determinante fondamentale è internazionale. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha teso allo spasimo le relazioni tra lo storico blocco occidentale in declino e il nascente blocco Cina-Russia in ascesa. Ed il forsennato avventurismo con cui gli Usa si sono precipitati a rendere la guerra il più lunga e letale possibile per la Russia e per l’UE ha moltiplicato le difficoltà dell’economia italiana proprio nel momento in cui il governo Draghi faceva sognare qualcuno e prometteva di prolungare il rimbalzo dell’economia del 2021. È almeno dal 2011, con l’improvvisa perdita della Libia, che – sistematicamente – il capitalismo made in Italy esce malconcio dai momenti di più acuto scontro internazionale. La cosa si sta di nuovo verificando per effetto della guerra in Ucraina.
I contorsionismi parlamentari degli ultimi mesi hanno molto a che vedere con le difficoltà del capitalismo italiano, che per mezzo secolo si era ritagliato dentro il campo occidentale uno spazio di espansione verso Sud e verso Est in qualche misura “autonomo”. Negli ultimi trent’anni questo spazio si è progressivamente ristretto, in un quadro internazionale fortemente mutato sia per l’entrata in campo delle nuove potenze produttive asiatiche, sia per il tentativo di coordinamento dei Brics. Le sanzioni contro la Russia, volute da Washington a tutti i costi (costi per gli altri, s’intende), hanno sottratto spazio all’export italiano, leva vitale per un’economia che si fonda sui bassi salari e quindi con un limitato mercato interno, con una povertà in crescita.
Per il momento il grande capitale bancario e industriale che detiene le fondamentali leve del potere in Italia, ha saputo regolare con efficacia la contraddizione proletaria. Ma si ritrova periodicamente a fare i conti con la riottosità dei ceti medi accumulativi che da sempre hanno goduto di privilegi sconosciuti negli altri paesi occidentali, a cominciare dalla condizione strutturale di essere esentasse, e di essere protetti da ogni sorta di norme/prassi corporative, di avere accesso ad ogni tipo di agevolazione, protezione con numeri chiusi, albi, favori, rimborsi, canoni risibili (se c’è di mezzo lo stato). Nelle ultime settimane abbiamo visto all’opera i titolari delle scandalose licenze sui litorali ed i taxisti (da sedici anni in agitazione). E la prima sortita elettorale di Salvini: “rottameremo 50 milioni di cartelle” (cinquanta milioni!), dà la misura di quanto enorme sia il bacino della mucillagine dedita alla piccola, e non solo piccola, accumulazione esentasse nei più svariati settori – e di quanto ritorni in campo la mossa demagogica di arruolare in un unico campo anti-operaio i lavoratori autonomi che nel venir meno di passate garanzie vedono non a torto messa in discussione la propria esistenza, e le schiere dei padroncini che vivono del feroce sfruttamento del lavoro proletario.
Le elezioni – a cui una vasta area del mondo degli sfruttati è oramai indifferente – sono invece il momento in cui tuttora larga parte degli strati intermedi della società si mobilita per dare forza a chi fa le promesse più accattivanti. Non è che la loro agitazione sia, al momento, incontenibile. Ma ciò che ha spinto Draghi e una parte dei suoi ‘avversari’ (avversari per modo di dire – sulle opzioni essenziali sono d’accordo) a optare per le elezioni è la certezza, comune a tutti, di un autunno-inverno da incubo. Con la guerra che si incarognirà, dal momento che la NATO si sta orientando a dotare l’Ucraina di bombardieri, e Kiev comincia a saggiare che effetto fa lanciare droni contro una centrale nucleare; con una recessione ormai alle porte; con la Russia che appare orientata a tagliare del tutto il gas all’Europa; con il rischio di una ripresa della pandemia; con un’emergenza climatica che solo i più ottusi tra i fessi, o le più carogne tra le carogne, possono negare; con tutti questi fattori a fare da scenario, è molto meglio anticipare la sarabanda elettorale e affrontare il passaggio cruciale del prossimo autunno-inverno con un governo che godrà di una fresca “investitura popolare” piuttosto che andarci con un governo logorato dalle manovre pre-elettorali.
In questo senso, ancora una volta, Draghi ha impersonato l’interesse complessivo della classe capitalistica, forse più dell’altro dioscuro degli interessi imperialisti che sta al Quirinale, se risponde al vero che Mattarella era contrario alla fine anticipata della legislatura e favorevole ad un Draghi-bis. Se così fosse, se perfino l’asse Mattarella-Draghi si fosse in qualche misura incrinato, sarebbe un altro segno di come si stia avvitando su sé stessa la crisi istituzionale della borghesia italiana, che non riesce a trovare al proprio interno un centro di gravità permanente.
E ora?
L’opinione prevalente pronostica un successo a mani basse delle destre coalizzate. E senza dubbio questo è possibile, anzi probabile. Ma la ritrovata unità delle destre non appare così solida, se Berlusconi si è affrettato ad escludere liste unitarie con la Lega e ha iniziato a spacciare le sue balle in autonomia al pari di Salvini; se non c’è accordo su chi debba presiedere il futuro governo; se si stanno affilando i coltelli per le scelte dei colleghi. Un caos perfino maggiore, e questo è un vantaggio indiscutibile per le destre, regna nel campo del cosiddetto centro-sinistra con la moltiplicazione di centri e centrini, l’uno più rissoso e verbalmente violento dell’altro perché certi personaggetti in cerca d’autore si contendono l’identico modesto perimetro di consensi (e i lauti investimenti dei loro sponsor), e con un Pd che crede di avere in mano la carta vincente con l’impugnare fanaticamente “l’agenda” lacrime e sangue di Draghi. Che spettacolo!
Perfino peggio, però, riescono a fare quelle formazioni di sinistra che si stanno ora arrabattando freneticamente per mettere su in fretta e furia due, tre, quattro o più liste di “opposizione di classe” (o qualcosa che alluda a ciò) sperando di riuscire a sfondare la barriera dello 0,0, pronti ad ogni artificio e alleanza pur di riuscire a entrare in un parlamento sempre più svuotato anche della funzione politica di podio da cui denunciare le malefatte della classe dominante.
Non è da ora che il parlamento è svuotato di quasi tutte le sue storiche funzioni “democratiche”. Oggi, con l’esercizio provvisorio il Governo Draghi, i suoi ministri, i suoi sottosegretari l’hanno escluso da ogni minima funzione e vedremo al varo una serie di provvedimenti tutt’altro che “provvisori” e tutti contro i proletari.
Ma i nostri “rivoluzionari” non ascoltano nessuno e, convinti di educare il popolo, non si accorgono neppure che nel campo proletario si registra un crescente rifiuto delle ritualità parlamentari ed elettorali, sicché pensare di trasformare tale ripulsa in sostegno ad una pretesa “lista di lotta senza lotta” è un’illusione perpetua che prepara delusioni. E così li vediamo rovesciare l’impostazione classica del “parlamentarismo rivoluzionario” (cui talvolta pretendono di richiamarsi) che richiederebbe la soluzione preventiva di ben altri problemi politici e organizzativi.
In questo baillamme, che vada al governo in ottobre l’alleanza delle tre destre, oppure si ritorni ad una maggioranza draghiana o simil-draghiana con perno sul Pd, l’unica certezza (la seconda certezza) è che si preparano per la massa delle lavoratrici e dei lavoratori che si sudano la vita, sacrifici molto superiori a quelli a cui si è stati obbligati nell’ultimo trentennio.
E non ci sarà altro presidio da un’aggressione statale e padronale senza precedenti, se non nell’impetuosa ripresa dell’iniziativa di classe contro il carovita, contro i licenziamenti, contro la guerra, contro la repressione.