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[CONTRIBUTO] Piccoli schiavi crescono. Lo sfruttamento dei figli delle donne braccianti nei campi agricoli: infanzia e sfruttamento

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dalle compagne della Comitato 23 settembre, già disponibile sulla loro pagina (vedi qui):

Piccoli schiavi crescono

Sono i figli dei 230.000 occupati “irregolari” in agricoltura. Tra questi, ci sono 55.000 donne, e con loro un gran numero di bambine e bambini, che alcuni definiscono invisibili, perché non registrati all’anagrafe.

Non hanno diritti, sono costretti a vivere in case fatiscenti, senza accesso alle cure sanitarie, senza mediatori culturali che aiutino a partecipare alle vita scolastica, nel più totale isolamento sociale. Vivono le loro giornate in solitudine, mentre i loro genitori sono al lavoro dall’alba alla notte. Nessuna struttura si occupa di loro e della loro “infanzia negata”. Inevitabilmente molti di loro sono costretti a loro volta, alla domenica e in tutto il periodo estivo, al pesantissimo lavoro in agricoltura, nelle serre, a impacchettare i prodotti, ad irrorarli di pesticidi, senza protezioni.


Non stiamo parlando di qualche remota regione dell’India o dell’Africa profonda, ma del Lazio e della Sicilia, della provincia di Latina e Ragusa, dove c’è la maggior concentrazione di produzione in serra, e dove un’inchiesta di Save the Children ha portato alla luce (con scarsissimo ascolto dei media, occupati a seguire le vicende dei ladruncoli di stato) l’orribile condizione in cui vivono i figli dei braccianti, per lo più immigrati dalla Romania e dalla Tunisia.


Proprio quella Tunisia con cui il governo sta tramando accordi per “frenare” l’immigrazione clandestina, per garantire cioè che chi riesce ad arrivare da quel paese sia ancor più indotto ad accettare ogni più infame condizione di lavoro e di vita. I loro figli, prime vittime di quella situazione, saranno a loro volta costretti a lavorare come schiavi, per aiutare i genitori, e quindi, in mancanza di ogni formazione o consapevolezza dei loro diritti, accettare il loro destino di schiavi adulti, vittime di ricatti, soprusi e violenze di ogni genere. Per le ragazze, non mancherà il di più di violenze, molestie e stupri.

I bambini e ragazzi oggetto dell’inchiesta manifestano, oltre ad una precoce assunzione di responsabilità nelle incombenze familiari, nella cura dei fratelli più piccoli, e, per quel che possono, nel cercare di seguire il percorso scolastico, una profonda rabbia e frustrazione per la loro condizione in un paese che pareva offrire un destino migliore rispetto alla loro terra di origine. Prima o poi questa rabbia esploderà, smascherando la retorica del bel paese democratico e solidale…
Ancora una volta denunciamo queste situazioni, affermando che non sono frutto di arretratezza, o sintomo di inevitabile marginalità.

A conferma di ciò, un’inchiesta del New York Times denuncia il fatto che il lavoro minorile sta tornando con forza nel paese della libertà, gli Usa. Lì è in atto un forte movimento istituzionale che tende ad indebolire o abrogare le leggi che nel tempo hanno limitato la possibilità di sfruttare i bambini. 14 stati americani (non solo quelli a maggioranza repubblicana o del sud del paese) hanno già promulgato leggi in questo senso, togliendo i limiti all’orario di lavoro o al salario minimo e le restrizioni sui lavori pericolosi per i giovanissimi. Il lavoro minorile e infantile è così aumentato del 37 per cento tra il 2015 e il 2022

I giovanissimi, per lo più immigrati, lavorano anche in settori estremamente pericolosi, nell’edilizia, nella demolizione, nei mattatoi, nelle grandi imprese, nella ristorazione, nell’abbigliamento, nella trasformazione alimentare. Il 20 per cento dei lavoratori nel tessile ha meno di 12 anni. Lo stato dell’Iowa permette ai ragazzini di 14 anni di lavorare di notte e a quelli di 15 nelle catene di montaggio. Il tasso di incidenti è particolarmente elevato, con danni alla colonna vertebrale, ustioni, amputazioni, avvelenamenti.

Naturalmente non mancano giustificazioni “morali” di questo andazzo: i bambini sarebbero distolti dall’insano attaccamento ai telefonini, si rafforzerebbe l’autorità dei genitori, poiché sono loro a dare il consenso all’impiego dei figli, (ma al tempo stesso, si preparano leggi che rendono inutile questo consenso).

All’inizio dell’era industriale, autorevoli pensatori e scrittori anglosassoni magnificavano l’utilità, anzi la necessità di avviare al lavoro gli infanti dai 3 0 4 anni in su, lamentando altrimenti lo spreco di capacità ed energie necessarie allo sviluppo della nazione (ovviamente, ai profitti del nascente capitalismo). Il lavoro era l’indispensabile disciplina che li avrebbe sottratti alla corruzione e all’immoralità. Un proletariato stremato dalla fame si oppose all’inizio alle leggi che limitavano il lavoro minorile, poiché erano costretti, come sottolineava Marx, a “vendere mogli e figli” per sopravvivere. Ma le spaventose condizioni del proletariato di allora, l’alta mortalità infantile e il dilagare delle malattie mettevano a rischio la possibilità, per i capitalisti, di trovare sul mercato nuova forza lavoro che garantisse il ricambio generazionale.

Su questo si mosse in seguito anche il movimento operaio organizzato, (ricordiamo la crociata dei bambini, organizzata dalla mitica sindacalista americana Mather Jones nel 1903), ma si dovette aspettare la crisi degli anni trenta, e l’altissima disoccupazione degli adulti, per arrivare alla regolamentazione e la drastica riduzione del lavoro dei ragazzi. Ovviamente parliamo dei paesi occidentali, poiché nei paesi del sud del mondo, e in particolare nel lavoro in agricoltura e nel tessile, questo non è mai stato messo in discussione, nonostante gli eroici esempi di lotte condotte dai bambini in prima persona.

Tra queste, ne è testimonianza la storia di Iqbal, il bambino pakistano venduto a 5 anni dalla famiglia per 26 dollari ad un fabbricante di tappeti, che a 12 anni denunciò lo sfruttamento e le condizioni di prigionia in cui lavorava, fuggendo con i suoi compagni per partecipare ad una grande manifestazione contro il lavoro minorile. (la sua storia è raccontata da Francesco D’Adamo nel bel libro “ Storia di Iqbal”, edizioni E/L).

Oggi i bambini lavoratori nel mondo son 152 milioni, e il sistema capitalistico ne ha sempre più bisogno, per poter spremere fino all’ultima goccia di sudore e di sangue dalla massa di lavoratori che sfrutta. I diritti alla protezione, alla cura, all’istruzione sono assoggettati alla ferrea legge della divisione in classi e della ricerca del profitto. Ma il capitalismo nonostante la crisi inesorabile che lo attraversa non si ritirerà dalla lotta per la sua sopravvivenza. E neanche noi, in questo tempo colpito da sempre nuovi flagelli naturali e sociali, possiamo tirarci indietro o aspettare come individui passivi il crollo del sistema.

Ancora una volta, dobbiamo trovare uno spazio, nelle nostre difficili vite, per reagire, mobilitarci, unire le nostre intelligenze e le nostre volontà, socializzare la necessità della lotta, trasmettere ai giovani il diritto di non subire e battersi, con ogni mezzo, per una vita degna di essere vissuta.

27 luglio,

Comitato 23 settembre