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[INTERNAZIONALISMO] Walmart, Amazon, Zara, Ryanair, Uber: ritorno al passato. Condizioni di lavoro ottocentesche ma con la lotta di classe i lavoratori battono anche le multinazionali

Walmart, Amazon, Zara, Ryanair, Uber: ritorno al passato…*

Cosa hanno in comune mega-aziende come Walmart, Amazon, Zara, Ryanair, Uber che hanno realizzato una strepitosa ascesa nel mercato globale nel giro di un paio di decenni, e anche meno?

Anzitutto l’imposizione di condizioni di lavoro e di rapporti di lavoro ottocenteschi in pieno ventunesimo secolo.

In queste imprese di ultima generazione che forniscono beni e servizi low cost, la prima cosa che è low cost, e a zero diritti, è il lavoro.

Prima scena: Walmart

Nella storia del capitalismo la Walmart è la prima grande azienda ad avvertire i propri dipendenti – quasi sempre donne, giovani, immigrati, handicappati – che il salario che percepiranno è così basso da essere insufficiente per vivere, e che debbono quindi cercarsi un secondo lavoro.

I manager di questa ch’è l’impresa globale per eccellenza, vengono istruiti, sulla base di un’apposita guida, a impedire la nascita del sindacato in azienda – solo in Cina la Walmart ha dovuto piegarsi agli scioperi operai, e ammettere nei suoi magazzini la presenza del sindacato ufficiale.

Walmart si serve di un vero e proprio arcipelago gulag di decine di migliaia di piccolissime, piccole e medie unità produttive dislocate in tutto il Sud del mondo (moltissime in Cina) che lavorano in appalto e subappalto, forzate a sottostare al principio del plus one.

Ogni anno esse debbono praticare una riduzione, per quanto piccola, del costo unitario delle merci fornite a Walmart per garantire alla multinazionale del commercio un ininterrotto incremento di profitti.

In queste decine di migliaia di unità produttive si lavora, nei periodi di punta, fino a 18-20 ore al giorno, la settimana lavorativa è abitualmente di 7 giorni, l’orario settimanale sfora anche le 100 ore, con un solo giorno di riposo al mese e massimo 15 giorni di ferie l’anno; i salari sono pressocché ovunque inferiori ai minimi legali, comunque inferiori a 1 euro l’ora; non esistono misure di sicurezza così come, è ovvio, non esistono sindacati; sono frequenti sia le punizioni corporali che le
violenze sessuali; sono occupati molti minori; spesso i dormitori si trovano all’interno delle stesse fabbriche.

È facile capire perché Richard Freeman abbia definito questa rete mondiale di produttori per Walmart “un campo di concentramento [globale] di lavoro schiavistico”.

Seconda scena: Amazon

Ma Amazon non è da meno, sebbene la sua presenza sia essenzialmente nei paesi del Nord del mondo.

Un’inchiesta comparsa sul “New York Times” il 15 agosto 2015 ha squarciato il velo su questo celebre caso di successo, documentando condizioni di lavoro spietate, con settimane lavorative fino ad 80 ore, turni sfiancanti per l’intensità e velocità delle prestazioni richieste, lavoratori costantemente monitorati e stimolati a produrre di più, impiegati costretti a spedire email anche di notte o obbligati a spiare i propri colleghi, donne spinte a migliorare le proprie perfomance, anche se malate di cancro.

Dopo quella clamorosa inchiesta, le cose non sono cambiate gran che, se è vero che a luglio di quest’anno 13 membri del Congresso, tra i quali Bernie Sanders, hanno denunciato “le croniche violazioni delle norme di sicurezza in tutti i magazzini Amazon”, sulla base delle “crescenti pubbliche rivelazioni sulle condizioni di lavoro brutali e rischiose” presenti in questi magazzini.

La denuncia inserisce Amazon nella “sporca dozzina” dei luoghi di lavoro più pericolosi degli Stati Uniti: tra il 2013 e il 2018 vi sono morti 7 operai; nello stesso periodo si sono verificate 189 situazioni di emergenza in 46 diversi luoghi per pesanti collassi nervosi o rischi di suicidio.

Fuori dagli Stati Uniti i metodi di Amazon non sono meno brutali: a Swansea, in Galles, ai lavoratori di Amazon è categoricamente vietato parlare tra di loro.

A Piacenza, in Italia, la tensione produttiva è talmente alta che i bagni risultano perfettamente puliti perché nessuno ha il tempo di andarci.

Sulle intenzioni di Amazon-Italia (e non solo) dice tutto la recente decisione aziendale di cercare nuovi capi-magazzino in modo prioritario tra gli ufficiali militari che abbiano esercitato il comando su unità di non meno di 100 individui.

Davanti alle rimostranze sindacali, l’azienda ha precisato: non c’è nessuna novità, perché “Amazon impiega centinaia di veterani e riservisti nei suoi uffici e magazzini in tutta Europa, un numero che continua a crescere.

Sono buoni leader…”.

Dunque: luoghi di lavoro o caserme?

Del resto per Amazon, così come per Walmart, l’impresa ideale è quella senza sindacato, senza alcuna forma di organizzazione dei lavoratori.

Terza scena: Zara

Il meraviglioso “mondo di Zara” assomiglia molto a quello di Walmart. 7.490 punti vendita al dettaglio (compresi quelli di un centinaio di società controllate), 175.000 dipendenti, un giro di affari di decine di miliardi solo con la capogruppo, il gruppo di Ortega&Mera è stato indicato più volte come il terminale di forme di bestiale super-sfruttamento del lavoro.

Ad esempio in Brasile, dove sono stati scoperti a San Paolo laboratori clandestini di produzione per Zara in cui immigrati boliviani e peruviani, anche di età inferiore ai 14 anni, erano costretti a lavorare 12 ore al giorno, senza pausa domenicale né ferie, per 100 euro il mese, meno della metà del salario minimo legale.

Ad esempio in Bangladesh, dove un’inchiesta televisiva del 12 novembre 2017 (fatta da Le iene) ha filmato una fabbrica fornitrice di Zara in cui la manodopera era composta in prevalenza di bambini “che lavorano ore e ore al giorno, ripetendo sempre le stesse azioni di fronte a macchinari vecchi e pericolosi, privi di ogni protezione e mascherine, per guadagnare al massimo un euro al giorno”.

O ancora in Turchia dove in quegli stessi giorni i clienti dei negozi di Istanbul hanno trovato nelle tasche degli abiti acquistati da Zara richieste di aiuto dei dipendenti dell’azienda a cui non erano stati pagati i salari.

Né va meglio nei paesi europei centrali, se è vero che nei negozi di Milano, Venezia, Firenze commessi e bodyguard hanno denunciato orari massacranti, turni improponibili, salari da fame – condizioni che portano una commessa con grossi problemi familiari disconosciuti dall’azienda, a dire: “Zara si sta prendendo tutta la mia vita, sento di avere un cappio intorno al collo”.

Quarta scena: Uber

Uber è un altro tipo di impresa rampante di ultima generazione che ha fondato tutta la sua fortuna sul super-sfruttamento del lavoro.

In questo caso i suoi dipendenti (gli autisti) non sono neppure formalmente dipendenti.

Sono bensì trattati come lavoratori autonomi, e devono perciò rifornire le loro automobili e pagare tutte le spese, incluse le spese di riparazione, manutenzione, assicurazione per le loro auto.

La App di Uber, infatti, è un’impresa privata globale che usa il lavoro salariato mascherato da attività “indipendente” e “imprenditoriale” per appropriarsi la più ampia quota del plusvalore generato dai servizi dei suoi autisti.

Questa impresa ha generato un nuovo modello di super-sfruttamento del lavoro, chiamato “uberizzazione” – spietato modus operandi imprenditoriale finalizzato a generare più profitti possibile e ad incrementare il valore del capitale attraverso la precarizzazione strutturale del lavoro. Inoltre, come ha notato Ricardo Antunes in

Addio al lavoro?, si prevede sempre più spesso che i dipendenti siano disponibili a lavorare in qualsiasi momento: senza giorni di lavoro prestabiliti, senza luoghi di lavoro chiaramente definiti, senza salari fissi, senza attività predeterminate, senza diritti (si capisce), e con nessuna protezione o rappresentanza sindacale.

Quinta scena: Ryanair

Anche l’irresistibile ascesa di Ryanair è legata a triplo filo ai bassi salari, ai lunghi orari e al divieto di sindacalizzazione, come ben sanno i suoi dipendenti.

Ma ci sono alcune specifiche particolarità: la principale è che il tempo di lavoro retribuito, per gli assistenti di volo, è solo il tempo di volo effettivo, tutto il resto lo debbono regalare all’impresa, che non è la Ryanair, bensì l’agenzia interinale Crewlink.

Particolari, e di solito molto peggiori della media rispetto alle stesse compagnie low cost, sono anche le norme aziendali in materia di formazione (va pagata dal dipendente), durata del periodo di prova, preavviso di licenziamento, malattia e infortunio (non pagati), pressione (ossessiva) a vendere prodotti in aereo, trattamento di fine rapporto (non c’è), obbligo di restituire i bonus ricevuti in caso di dimissioni, etc.

E, naturalmente, zero sindacati!

E poi? Poi sono arrivate le lotte, le lotte internazionali

Però, però… gli ultimi anni hanno visto moltiplicarsi le denunce pubbliche, le azioni legali, le proteste e le azioni di sciopero contro questi campioni della post-modernità schiavistica.

L’anno di svolta in Europa, in specie per i lavoratori di Amazon e di Ryanair, è stato il 2017.

Lo sciopero dei dipendenti di Amazon è scattato il 17 luglio su appello dei lavoratori e sindacati spagnoli in coincidenza con il Prime Day, le 36 ore di promozioni e sconti previsti dall’impresa dell’e-commerce statunitense.

Si è scioperato simultaneamente in Germania, Spagna e Polonia.

La richiesta comune è stata il miglioramento delle condizioni di lavoro, che prevedono oggi un’intensissima spremitura dei lavoratori tale da comprometterne la salute.

Arrivare a questo sciopero non è stato facile sia per i disaccordi tra i maggiori grandi sindacati europei, tutti infettati di nazionalismo, sia per la pretesa padronale di applicare (o disapplicare) contratti differenti a seconda dei luoghi e delle proprie strutture.

Ma nonostante ciò, si è arrivati ad un primo sciopero transnazionale.

A dimostrazione che per quanto una simile dimensione della lotta sia difficile da realizzare, non è qualcosa di extra-terrestre.

La terra, cioè il piano di realtà, è l’attuale struttura (e potere) delle grandi imprese che è transnazionale – contro di esso ci si può battere in modo efficace solo dandosi un’organizzazione di lotta altrettanto transnazionale.

La piena conferma di quanto non sia affatto impossibile, volendolo ed organizzandosi a dovere per questo scopo, attuare uno sciopero transnazionale, si è avuta il 25 e 26 luglio 2017 con una “primière historique”: il primo sciopero simultaneo del personale Ryanair in Belgio (spettacolare la riuscita a Bruxelles, con il 90% degli addetti, forte anche a Charleroi con il 60%), in Spagna (coinvolti 1.800 lavoratori), in Portogallo e in Italia (dove sono stati cancellati 132 voli).

In totale 600 voli cancellati e più di 100.000 passeggeri a terra.

Non dappertutto l’esito dello sciopero è stato identico.

In questa occasione il personale di cabina e quello di terra è stato più attivo dei piloti, ma le prime proteste erano partite (in modo quasi carbonaro) proprio dai piloti, che in Irlanda il successivo 3 agosto hanno dato vita al loro quarto sciopero degli ultimi mesi.

O’Leary, il padrone di Ryanair, che per determinazione anti-operaia e brutalità non ha nulla da invidiare al padrone di Amazon Bezos, ha opposto un categorico no a tutte le rivendicazioni sindacali (applicazione delle legislazioni nazionali e non di quella irlandese, che è assai penalizzante per i diritti dei lavoratori, aumenti salariali, copertura dei giorni di malattia, etc.), ha utilizzato personale tedesco e polacco per rimpiazzare (dove ha potuto) gli scioperanti, ha agitato lo spettro di centinaia di licenziamenti in Irlanda entro l’autunno.

Per O’Leary le rivendicazioni dei lavoratori in sciopero sono “irragionevoli”.

Ragionevole, razionale, e giusto a tutti gli effetti, è solo l’incremento incessante, esponenziale dei profitti, come quello vantato da Amazon con 2,5 miliardi di dollari di profitti in un solo trimestre (record storico).

Tutto ciò che intralcia il trionfale cammino del di profitto, va spianato.

Invece la partita, in Ryanair, in Amazon, come negli altri casi qui citati, è aperta. Non a caso Ryanair ha dovuto fronteggiare nel 2017 più di 700 dimissioni dei suoi piloti, e la sentenza della Corte di giustizia europea che stabilisce che gli assistenti di volo (in quel caso dell’aereoporto di Charleroi) hanno diritto a far valere il diritto del lavoro del paese in cui “svolgono abitualmente la propria attività”.

Negli anni seguenti, al pari di Amazon, Ryanair si è trovata di fronte a nuovi scioperi, organizzati quasi sempre senza poter ricorrere a strutture sindacali riconosciute.

Anche Uber è sempre più di fronte alla rivendicazione dei propri effettivi dipendenti di riconoscerli per tali; e – per quanto continui a resistere – deve subìre anche la pressione di stati come la California perché ciò avvenga.

In Italia l’immagine di Zara è compromessa da scioperi in corso nelle più grandi città, a cominciare da Milano – spesso è scagliata contro Zara la parola “mafia” per denunciare il suo sistematico ricorso a finte cooperative organizzate da veri e propri kapò.

Insomma, come dimostrano gli scioperi dei mega-magazzini Walmart in Cina di anni fa, le lotte dei lavoratori di Amazon e Ryanair degli ultimi anni, quella dei dipendenti di Google contro le molestie sessuali nel novembre 2018, anche i più potenti tra i nuovi campioni del capitalismo globale possono essere combattuti efficacemente e battuti.

di Pietro Basso, redazione del Cuneo Rosso

*Pubblicato in porteghese sul blog Escala de combate O blogue do Sindicato do Pessoal de Voo em Portugal con il titolo “Volver al Siglo Diecinueve? Ou o «Horrível Velho Mundo» desde Amazon, Zara, Uber e Ryanair“.