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[INTERNAZIONALISMO] 20 luglio: scioperi for black lives in 100 città degli Stati Uniti

Pubblichiamo qui sotto la prima parte del contributo “20 luglio: scioperi for black lives in 100 città degli Stati Uniti” ricevuto dalla redazione de Il Pungolo Rosso e già disponibile sul loro sito (vedi qui).

Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.

Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.

Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.

Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.

Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.

L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.

S.I. Cobas


20 luglio: scioperi for black lives in 100 città degli Stati Uniti

In più di cento città degli Stati Uniti d’America l’altro ieri, 20 luglio, si è scioperato per la vita dei neri, strike for black lives. Gli essential workers, quelli con paghe misere intorno ai 10 dollari l’ora, prevalentemente afroamericani o latinos, senza malattie pagate e dove i diritti sindacali sono repressi dai padroni, hanno inscenato scioperi spontanei e sospensione del lavoro. Dalle fabbriche della logistica di Amazon, Fedex, gli inservienti di Mc Donalds, i lavoratori degli ospedali, gli auto trasportatori, in ogni posto di lavoro della GIG Economy, fin dentro le fabbriche dall’agroindustria della Yamika Valley e dei lavoratori della United Farm Worker, o nelle fabbriche di macellazione, i lavoratori hanno improvvisato gli scioperi.

Nelle città, in mezzo alla pandemia, sono stati improvvisati cortei di giovani lavoratori di tutti i colori. Un inviato della ABC News di Los Angeles riporta come testimonianza la difficoltà di condurre la protesta nel contesto della pandemia, la giornata di sciopero improvvisa cortei di auto ricoperte di cartelli “black lives matter”. Poi però, ad un certo punto, si formano cortei spontanei di migliaia di persone. Le stesse immagini si sono verificate a Chicago, dove qualche migliaio di giovani lavoratori, bianchi, neri e marroni hanno sfilato sotto alcuni palazzi delle grandi corporations, mentre un frastuono di clacson nelle strade adiacenti bloccavano il traffico e ritmavano gli slogan per black lives matter.

Una giovane lavoratrice di colore dice: “queste corporation fanno la pubblicità che loro sono contro il razzismo. Però queste stesse corporation sfruttano i propri lavoratori neri e marroni che lavorano in prima linea”. Oltre allo schiaffo di salari di fame, anche la beffa delle campagne di marketing fatte sulla pelle degli sfruttati.

Dalle grandi città della costa est e della costa ovest, alle città più piccole, Cleveland, Durham, o nelle contee dell’Idaho, questi giovani lavoratori hanno sfidato il razzismo sistemico, la repressione, le grandi corporation e la pandemia, tutti aspetti della crisi generale del capitalismo globale che legati tra loro stringono come un cappio gli sfruttati. Ovunque si grida con determinazione che non c’è giustizia sociale senza la giustizia razziale. Chissà se questo insegnamento che viaggia attraverso la lotta riuscirà a coinvolgere in un solo fronte quella dei lavoratori bianchi “garantiti” che ancora stanno a guardare e sperano di non essere chiamati in causa.

Infatti, mentre ieri avvenivano gli scioperi spontanei contro il razzismo, proseguivano scioperi di lavoratori bianchi contro il peggioramento delle condizioni di lavoro. Sono gli operai delle costruzioni e dell’indotto dell’estrazione di Gas in Oregon e gli sheet metal workers (operai delle industrie addette al recupero ed alla lavorazione dei metalli). Entrambi categorie operaie ritenute privilegiate, impiegate in attività produttive con prospettive di ottime paghe quando l’economia va con il vento in poppa, ma “esposte alle fluttuazioni del mercato” e dove in questi mesi si sono persi centinaia di migliaia di posti di lavoro che non torneranno più.

A Portland, siamo al 53^ giorno di proteste consecutive, dove ogni notte la battaglia dei giovani colorati e bianchi sfida il coprifuoco e la violenza della repressione dello Stato. Gli obiettivi sono i palazzi e le proprietà dello Stato Federale. Da circa una settimana il governo federale ha inviato alcuni squadroni del DHS (Department Homeland Security), la polizia del Dipartimento di Sicurezza Nazionale che da mera polizia di frontiera, dall’11 settembre 2001 è diventata una “milizia” federale per le azioni antiterrorismo. Con la scusa della protezione dei monumenti federali contro il “vandalismo” della protesta anarchica, queste milizie prive di tesserino di riconoscimento compiono raid tra i manifestanti, catturano giovani a casaccio e li trasportano via dentro grandi SUV anonimi (probabilmente auto a noleggio). Queste azioni di repressione e di rapimento vero e proprio hanno fatto insorgere un movimento di mamme nere, bianche e marroni che fanno cordoni d’ordine a difesa dei propri figli al grido “via i federali, le mamme sono qui”.

Nelle contee più piccole, come nella contea di Boise in Idaho, lo squadrismo bianco prende coraggio e cortei armati per la supremazia bianca vanno a sfidare faccia a faccia le manifestazioni dei colorati e bianchi contro il razzismo. Ma il movimento non si lascia intimidire, non retrocede. Un bianco rivendica che i suoi antenati irlandesi sono negli Stati Uniti da prima dei neri, che l’Idaho è stato fatto dagli Inglesi. La risposta da parte del movimento è di una donna nativa che rivendica “grazie per questa lezione di storia. Il mio popolo è più antico dell’Idaho. Il mio popolo è più antico dell’America… Voi potete gridare e portare le vostre bandiere (quelle a stelle e strisce n.d.r.), ma non c’è modo che voi possiate essere affezionati a questa terra quanto lo è il mio popolo… Ma va bene, siate benedetti in questa terra dei nativi indiani. Questa terra appartiene al popolo Shoshone. Questa terra appartiene al popolo Yakama. Idaho appartiene a tutto il popolo. E le vostre grida e il vostro non senso e la vostra storia non conta niente in confronto ai 15 mila anni di storia di questa terra. Ma in ogni caso siete i benvenuti. E c’è una opportunità oggi di costruire una comunità che sfida tutto quello che voi sapete e per la quale io combatto…”