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[CONTRIBUTO] Siccità, ondate di caldo e rivoluzione

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dai compagni della redazione Il Pungolo Rosso, già disponibile sul loro sito (vedi qui):

Pubblichiamo la nostra traduzione di un articolo di Daniel Tanuro ripreso dal sito web di Europe Solidaire Sans Frontières. I dati sull’andamento della crisi climatica sono incontrovertibili e l’autore reclama l’urgenza di misure “riformistiche” a livello internazionale, alcune delle quali sono richieste anche dai rapporti dell’ICPP. Tanuro specifica che quel rapporto “…è focalizzato sulle istituzioni che cerca di convincere, non sui movimenti sociali e le loro lotte. Tuttavia, è da questi movimenti sociali che tutto
dipende, non dai governi”, e fa un ulteriore passaggio sulla natura di classe della crisi climatica.

Insieme a proposte di misure di carattere più decisamente anticapitalistico, riappare in questo testo la categoria dell’eco-socialismo, ma stavolta ci sembra di cogliere una sottolineatura più pronunciata in direzione dell’antagonismo degli interessi di classe. Rispetto ad altri scritti la questione dell’eco-socialismo qui appare meglio definita come programma postrivoluzionario, ma ancora manca il salto, il passaggio tra le due fasi del processo di cambiamento che l’umanità deve attraversare: l’abbattimento del capitalismo.

In ogni caso quel che non dice, o non dice con la necessaria nettezza, Tanuro, lo diciamo noi a chiare lettere: senza la rottura rivoluzionaria non si potrà uscire dalla catastrofe ecologica in corso, e da nessun’altra delle presenti catastrofi sociali, a cominciare dalle guerre del capitale. 

Redazione Il Pungolo Rosso

Siccità, ondata di caldo e rivoluzione

– Daniel Tanuro

Riscaldamento globale, estrema gravità della siccità in Europa, ondate di caldo, effetto a valanga (o reazioni a cascata) tra tutti questi fattori di crisi… Rischio di improvvisi cambiamenti nel sistema delle correnti oceaniche con conseguenze incalcolabili… Questo articolo affronta questioni: la spiegazione di questo incontestabile stato di cose, la sua possibile evoluzione e le politiche da attuare.

È inutile, nell’ambito di questo articolo, elencare fatti e cifre che dimostrino l’estrema gravità della siccità che ha colpito il continente europeo. Persino quanti sono scarsamente informati hanno visto le immagini spaventose del fiume Po (in Italia) prosciugarsi, la Loira (in Francia) ridotta a un rivolo d’acqua, il fiume Tamigi (in Inghilterra) prosciugato alla sorgente e per otto chilometri, il fiume Reno (Europa) così basso da non essere più navigabile … Questa situazione senza precedenti è il risultato di un grave deficit nelle precipitazioni, andato accumulandosi sin dalla fine dell’inverno, dopo diversi anni consecutivi di siccità. L’acqua è diventata scarsa e in alcune zone molto scarsa.

È inoltre inutile riportare dati relativi all’ondata di caldo. Dire che le temperature «sono più alte delle medie stagionali», come si dice in televisione, è riduttivo: le superano di molto. La soglia dei 40 °C è stata superata più volte in molte aree, comprese quelle con clima marittimo temperato, come la Gran Bretagna. L’ondata di caldo ovviamente aggrava la siccità. L’attuale combinazione dei due fenomeni è eccezionale in termini di estensione geografica, intensità e durata.

Qui di seguito verranno brevemente discussi tre punti: le spiegazioni e la loro causa, la possibile evoluzione e le politiche da attuare.

Spiegazioni e causalità

Cominciamo con le spiegazioni. Sarà utile fare riferimento a questo valido articolo di divulgazione sul sito RTBF-Info. Spiega in maniera semplice, con diagrammi illustrativi, il modo in cui la scissione della corrente a getto polare racchiuda un anticiclone (un’area di alta pressione) in una regione geografica, facendo sì che una massa di aria calda rimanga permanentemente bloccata al di sopra di essa.

Il modo in cui la scissione della corrente a getto e il movimento verso nord dell’anticiclone delle Azzorre sono in relazione tra loro è oggetto di dibattito tra gli scienziati. Come sostiene l’autore dell’articolo: per alcuni, «è l’alta pressione che provoca la spaccatura [in due rami] del getto»; per altri, «è la spaccatura che favorisce l’ascesa dell’anticiclone». Una cosa è certa: questa duplicazione «è davvero una realtà che aumenta l’estensione dei periodi secchi e caldi alle nostre latitudini».

Un’altra certezza: non c’è dubbio che il riscaldamento globale sia la causa alla base della scissione della corrente a getto. La sua stabilità, infatti, è condizionata dal differenziale di temperatura tra il polo e l’equatore. Poiché il riscaldamento nell’Artico è maggiore della media globale, il differenziale si indebolisce e la corrente a getto diventa più irregolare, più lenta, più incostante, il che può portare alla sua scissione.

Ondate di caldo e siccità sono quindi evidentemente attribuibili al cambiamento climatico, contro il quale l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) mette in guardia da trent’anni. Secondo l’ultimo rapporto IPCC (WG1) «è praticamente certo che la frequenza e l’intensità degli estremi caldi e l’intensità e la durata delle ondate di caldo sono aumentate [globalmente] dal 1950 e aumenteranno ulteriormente in futuro anche se il riscaldamento globale si stabilizza a 1,5 °C». Il rapporto afferma che «la combinazione di ondata di caldo e siccità è probabilmente aumentata» e che «questa tendenza continuerà». Per l’Europa, il rapporto prevede (con un alto livello di sicurezza) un aumento delle inondazioni pluviali nel nord-est del continente e un aumento della siccità nella regione mediterranea, con una diminuzione delle precipitazioni estive nel sud-est.

Nessuna sorpresa, quindi: la realtà osservata è coerente con le proiezioni scientifiche. Salvo il fatto, e questo non è un dettaglio, che la prima supera di gran lunga i secondi. Di un ampio margine.

In realtà, tutto sta andando molto più velocemente di quanto indicato nei modelli matematici. I climatologi intervistati dalla stampa non nascondono la loro sorpresa per le temperature che balzano improvvisamente di 4° o 5 °C al di sopra delle medie stagionali. Tali estremi erano piuttosto previsti intorno al 2030, o oltre, se i governi avessero continuato a fare (quasi) nulla.

Dobbiamo tenere presente questa osservazione per affrontare il secondo punto: il possibile sviluppo.

Cosa ci riserva il futuro e cosa potrebbe riservarci

Come altri, ho spesso richiamato l’attenzione su una pubblicazione scientifica abbastanza recente1 che ha suscitato molto scalpore. Scritta da luminari del settore, essa discute le retroazioni positive del riscaldamento (in altre parole, gli effetti del riscaldamento che promuovono il riscaldamento). La sua originalità sta nell’esaminare il modo in cui i feedback positivi potrebbero alimentarsi a vicenda in una sorta di effetto valanga, o reazione a cascata.

La seguente citazione2 è cristallina:

«Feedback auto-rinforzanti potrebbero spingere il Sistema Terra verso una soglia planetaria che, se superata, potrebbe impedire la stabilizzazione del clima a temperature intermedie e causare un riscaldamento continuo sul modello “Terra-Serra” anche se le emissioni umane vengono ridotte».

Secondo gli autori dell’articolo, il processo potrebbe iniziare a un livello di riscaldamento relativamente basso, compreso tra +1 °C e +3 °C.

Uno dei feedback che più probabilmente innescherà il processo è la destabilizzazione della calotta glaciale della Groenlandia. Questa calotta costituisce un punto particolarmente fragile. Gli specialisti stimano che il punto critico per la sua disintegrazione sia compreso tra +1° (+1,5 °C secondo l’IPCC) e +3 °C di riscaldamento medio. Probabilmente siamo quindi già nella zona di pericolo, o ci stiamo avvicinando ad essa ad alta velocità (a politica invariata, i +1,5 °C saranno superati prima del 2040, secondo l’IPCC).

Se questo punto critico venisse superato, quali sarebbero le conseguenze? Da un lato, l’afflusso di acqua nell’oceano accelererebbe l’innalzamento del livello del mare. Il processo richiederebbe molto tempo per concludersi – un nuovo punto di equilibrio – ma sarebbe irreversibile. D’altra parte, questo afflusso potrebbe portare a un brusco e improvviso collasso nel capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (AMOC), che condiziona il clima delle regioni che si affacciano sull’Atlantico. E lì, gli impatti sarebbero immediati.

Ecco cosa dice il recente rapporto dell’IPCC Working Group 1 sul rischio di collasso dell’AMOC (IPCC AR6, WG1, TS p. 73):

«Sebbene vi sia una media fiducia che il previsto declino dell’AMOC non comporterà un crollo improvviso prima del 2100, un tale crollo potrebbe essere innescato da un inaspettato afflusso di acqua di disgelo dalla calotta glaciale della Groenlandia. Se si verificasse un collasso dell’AMOC, molto probabilmente ciò provocherebbe bruschi cambiamenti nei modelli meteorologici regionali e nel ciclo dell’acqua, come uno spostamento verso sud nella cintura delle piogge tropicali, e potrebbe comportare un indebolimento dei monsoni africani e asiatici, rafforzando i monsoni dell’emisfero australe e la siccità in Europa».

Tutto sta ovviamente in questo “se” che apre la possibilità di “cambiamenti bruschi”. Una cosa è certa: le conseguenze di questi mutamenti sarebbero estremamente gravi per gli ecosistemi e le popolazioni. Soprattutto, ovviamente, per le masse povere dell’Asia e dell’Africa. Centinaia di milioni di esseri umani si troverebbero ad affrontare situazioni drammatiche.

Come abbiamo letto, l’Europa non sarebbe risparmiata. La penisola iberica è particolarmente minacciata. Lì la desertificazione è andata avanti per anni. Varcherebbe una soglia qualitativa, irreversibile su scala umana.

Qual è il possibile legame con l’attuale siccità e ondata di caldo, sapendo che la Groenlandia non è circondata dalla scissione della corrente a getto che spiega questi fenomeni? Il collegamento è che, per un insieme di ragioni, il riscaldamento nell’Artico è il doppio della media globale. Secondo l’IPCC, è «praticamente certo» che la calotta glaciale della Groenlandia stia perdendo massa dal 1990: gli specialisti stimano che 4890 gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di ghiaccio (+- 460) si siano sciolte tra il 1992 e il 2020, portando ad un aumento del livello del mare di 13,5 mm.

L’IPCC sottolinea (ancora una volta!) un punto molto importante: queste proiezioni si basano esclusivamente su stime dello scioglimento del ghiaccio. Esse non includono i processi dinamici che accelererebbe la perdita di massa (il distacco di enormi frazioni della calotta che scivolano nell’oceano), perché «È importante sottolineare che le proiezioni dell’intervallo probabile non includono quei processi relativi alla calotta glaciale la cui quantificazione è altamente incerta o che sono caratterizzati da una profonda incertezza» (IPCC AR6, WG1, TS, p. 79).

Alla luce di quanto sta accadendo altrove sul pianeta, non è irragionevole temere che l’evoluzione delle cose, anche in Groenlandia, sarà più veloce della proiezione dei modelli. Sto usando un eufemismo. In effetti, una serie di indizi puntano chiaramente in questa direzione.

Alla fine di luglio 2022, la temperatura in Groenlandia ha superato di gran lunga le norme stagionali. Lo scioglimento del ghiaccio è stato due volte più importante degli altri anni nello stesso periodo. In tre giorni, si stima che 18 miliardi di tonnellate di ghiaccio siano state trasformate in acqua. Gli scienziati hanno calcolato che la quantità di acqua così rilasciata potrebbe ricoprire il territorio del West Virginia (62.259 km2) con uno strato d’acqua di circa trenta centimetri. Questa accelerazione nei processi di fusione di ghiaccio è senza precedenti3.

Non c’è bisogno di continuare: il futuro climatico è più minaccioso che mai. Le luci sono rosse, lampeggiano insistentemente, e i più poveri, i più fragili rischiano di doversi accollare il peso maggiore.

Cosa fare? (un noto refrain)

Passiamo alle politiche da attuare. La catastrofe è in corso e l’IPCC ci dice che continuerà a progredire «anche se il riscaldamento è limitato a 1,5 °C». Si noti – così, en passant – che l’attuale disastro è il prodotto di un riscaldamento di “soli” 1,2 °C rispetto all’era preindustriale. Non è molto difficile immaginare cosa verrà dopo…

Data la situazione, va da sé che non possiamo accontentarci di chiedere misure radicali per ridurre le emissioni di gas serra: queste misure sono ovviamente essenziali (più che mai!), ma devono essere messe in relazione con una politica immediata e molto concreta di adattamento al riscaldamento osservato e prevedibile.

Di fronte al connubio sempre più frequente e intenso di siccità e ondate di caldo, cosa si può fare per proteggere le persone, le piante e gli animali? È necessaria una visione a breve, medio e lungo termine. Deve mirare ad articolare un piano pubblico di adattamento che sia vincolante (per essere efficace) e flessibile (per essere adattabile all’imprevisto).

Tale piano deve comprendere componenti prioritarie in termini di gestione delle acque, prevenzione degli effetti sulla salute del caldo estremo (per le persone vulnerabili e a livello cittadino, messe di fronte al fenomeno delle “isole di calore”), agricoltura – silvicoltura, pianificazione dell’uso della terra, infrastrutture ed energia.

L’ultimo rapporto del secondo gruppo di lavoro dell’IPCC può fornire idee su come dare forma a un simile piano e lottare per esso dai movimenti sociali. Questo rapporto ovviamente non è anticapitalista, ma in esso si legge che «i percorsi di sviluppo dominanti non promuovono uno sviluppo resiliente sotto il profilo climatico» (fiducia molto alta) (IPCC AR6, TS.E.1.1, p. 100).

I motivi addotti sono: l’allargamento delle disuguaglianze di reddito, l’urbanizzazione non pianificata, la migrazione forzata e lo sfollamento, il continuo aumento delle emissioni di gas serra, il proseguimento dei cambiamenti nell’uso del suolo, l’inversione della tendenza di lungo periodo verso una maggiore aspettativa di vita…4

La denuncia delle politiche neoliberiste è implicita, ma abbastanza chiara.

Sul lato positivo, il rapporto dell’IPCC insiste giustamente sul fatto che l’adattamento ai cambiamenti climatici deve essere olistico, sociale, democratico, partecipativo, deve ridurre le disuguaglianze, fare affidamento sui gruppi sociali più deboli, rafforzare le posizioni sociali delle donne, dei giovani e delle minoranze, ecc. Ma il suo approccio è focalizzato sulle istituzioni che cerca di convincere, non sui movimenti sociali e le loro lotte. Tuttavia, è da questi movimenti sociali che tutto dipende, non dai governi.

Non è questa la sede per elaborare un catalogo di istanze, ci accontentiamo di alcune indicazioni e riflessioni.

La gestione dell’acqua è un punto chiave. Come scrive l’IPCC (WG2), «Centrale rispetto alle questioni di equità sull’acqua è il fatto che essa rimanga un bene pubblico (alta fiducia nelle istituzioni)» (IPCC AR6, WG2, TS.E.2.5). Questa è la linea guida.

In particolare, si tratta di mettere in discussione la monopolizzazione delle risorse idriche da parte dei gruppi capitalistici che producono acqua in bottiglia e bevande varie, quella delle foreste da parte dei produttori di pasta di carta, pellet o altri beni (vedi i danni ecologici e umani causati dalle piantagioni di eucalipto in Portogallo!), quello delle acque sotterranee da parte dell’agrobusiness (in Andalusia, per esempio).

Ma la linea guida dell’acqua come bene pubblico implica anche una serie di istanze concrete più immediate: tornare sull’impermeabilizzazione delle superfici, sulla fognatura delle acque piovane, sulla rettifica dei corsi d’acqua, sulla distruzione delle zone umide; promuovere tecniche agricole e forestali che ripristinino i suoli e la loro capacità di assorbimento limitando il deflusso; riorientare l’agricoltura molto più radicalmente verso l’agroecologia; senza dimenticare l’investimento nella rete di distribuzione (in Vallonia, in Belgio, ad esempio, il 20 per cento dell’acqua prodotta non viene fatturato – le perdite di rete sono quindi molto significative).

Una gestione razionale, sociale ed ecologica dell’acqua richiede un’altra politica dei prezzi. La politica liberale del “costo reale” è socialmente ingiusta, poiché tutti i consumatori pagano per il trattamento delle acque reflue industriali in grandi quantità. Inoltre, la politica neoliberista incoraggia lo spreco della risorsa, poiché il reddito finanziario del distributore dipende in parte dal fatto che gli utenti pagano anche per la depurazione – inutile! – dell’acqua piovana immessa in fogna…

Un altro sistema deve essere attuato: per le famiglie, consumi gratuiti corrispondenti alla ragionevole soddisfazione dei bisogni reali (bere, bagni e docce, lavare la casa, lavare i piatti e il bucato, ecc.), quindi una tariffazione rapida e progressiva al di sopra di questo livello.

La protezione delle persone dovrebbe essere un’altra priorità efficace. Questo non è [attualmente] il caso. Guidata dal climatologo JP van Ypersele, la piattaforma Wallon per l’IPCC rileva che l’ondata di caldo del 2003 ha ucciso più di 1.200 persone mentre quella del 2020 ne ha uccise più di 1.400… Tra le due date, quindi, non è stato fatto nulla… nonostante le promesse.

Un piano pubblico per l’adattamento al caldo estremo dovrebbe almeno organizzare l’inverdimento sistematico degli agglomerati (alberi ovunque, per fornire ombra), nonché l’isolamento termico di tutti gli ospedali, le scuole, le case per anziani o disabili.

Più in generale, dobbiamo riaffermare l’urgenza di isolare e rinnovare tutte le abitazioni. Non solo per ridurre radicalmente le emissioni da riscaldamento (e condizionamento!) ma anche per tutelare la salute e il benessere. In questo caso come in altri, è evidente che le politiche neoliberiste di incentivazione mediante meccanismi di mercato sono sia ecologicamente inefficienti che socialmente ingiuste. Questa politica delle mezze misure deve cedere il passo a un’iniziativa pubblica, altrimenti prevarranno soluzioni individuali come l’acquisto di condizionatori, portando ad un aumento dei consumi energetici e delle emissioni di CO2.

L’IPCC insiste sull’importanza di una politica olistica, che consideri sia l’adattamento al riscaldamento globale che la riduzione delle emissioni (“mitigazione”, in gergo). In genere, il settore energetico si trova a cavallo di entrambe le aree. Manca l’acqua per raffreddare i reattori nucleari. Alla luce delle proiezioni, questa realtà può solo peggiorare negli anni a venire, così che la politica di adattamento si troverà di fronte ad alternative infernali: l’acqua dovrebbe essere utilizzata in via prioritaria per raffreddare le centrali (riscaldando i fiumi!) per generare elettricità? o per bere ? o per innaffiare i raccolti? (e quali raccolti?). Un motivo in più (ce ne sono molti altri!) per non contare sul nucleare come soluzione di “mitigazione”…

Non tornerò qui sulle misure da adottare in termini di riduzione strutturale delle emissioni di gas serra; ho già dedicato molti scritti all’argomento. Insomma: l’energia e la finanza devono essere socializzate, e così pure l’acqua, bisogna uscire dall’agrobusiness e organizzare la fine rapida della mobilità in base alla singola auto. Questo insieme di profonde trasformazioni strutturali è la condizione necessaria, ma non sufficiente, per una rapida ed efficace decarbonizzazione dell’economia globale.

Senza questo drastico rimedio anticapitalista, risulterà assolutamente impossibile rispettare i vincoli climatici spiegati dagli scienziati. In questo caso, la “Terra serra” evocata da Johann Rockström e dagli altri autori sopra menzionati diventerà sicuramente una realtà irreversibile. E questo significherebbe un cataclisma umano ed ecologico di portata inimmaginabile. Inconcepibile.

Politica climatica “nozionale” o eco-socialismo?

C’è sempre un lato positivo: ora tutti possono prendere coscienza dell’estrema gravità della situazione e del terribile pericolo che abbiamo davanti. Ripropongo qui un estratto da un post pubblicato l’11 agosto sui social network, riguardante la siccità in Europa:

«Con le inondazioni (del 2021 in Belgio e Germania), il cambiamento climatico ci ha dato, per così dire, una botta in testa. Un colpo di mazza fa male, può uccidere chi è in prima linea. Con la siccità, il riscaldamento mostra che può prenderci per la gola e stringerci lentamente, ogni giorno un po’ di più, senza fretta, così che avremo tutto il tempo per vedere la morte incedere – i più lucidi la vedono già: la morte di piante, la morte dei fiumi, la morte degli animali, la nostra stessa morte. Perché come potremmo sopravvivere quando tutto scompare?»

Di fronte alla posta in gioco, tutti possono anche prendere coscienza del fatto che le politiche di governo sono del tutto inadeguate e, a dire il vero, criminali.

Queste politiche non consentono di ridurre rapidamente le emissioni (le emissioni continuano ad aumentare!) così da arrivare a “zero emissioni di carbonio” nel 2050. Davanti ai nostri occhi sta addirittura avvenendo il contrario: la ripresa post-pandemia e la guerra di Putin contro il popolo ucraino hanno scatenato una corsa ai combustibili fossili a rotta di collo (carbone in Cina, Russia, Turchia; lignite in Germania; gas di scisto negli Stati Uniti; gas nell’Unione Europea). Il tutto di pari passo con una frenesia di accaparramento neo-coloniale, rivalità tra poteri e barbara gestione delle migrazioni.

Non solo le politiche climatiche dei governi sono inefficaci e aumentano le disuguaglianze sociali, ma esse non proteggono le popolazioni dai disastri. Questa protezione delle popolazioni è però, in teoria, compito costituzionale elementare di ogni governo, di ogni Stato.

Questo formidabile imbroglio è un potenziale fattore di spettacolare approfondimento della crisi di legittimità dei potenti di questo mondo, indipendentemente dal “campo” al quale appartengono.

L’instabilità così creata non può non avere ripercussioni sul piano ideologico. Ne abbiamo avuto un esempio di recente, in Belgio, con il libero forum di “autocritica” che Bruno Colmant ha pubblicato su La Libre.

In questo testo, l’ex capo di gabinetto dell’ultra-liberista Didier Reynders, l’economista che ha ideato la truffa dell’”interesse nozionale”, ritiene che «il capitalismo neoliberista non è più compatibile con la sfida climatica».

Il signor Colmant ha ragione: il “libero mercato” non ci tirerà fuori dall’impasse. Affrontare la sfida climatica richiede imperativamente un piano pubblico, obiettivi sociali ed ecologici diversi dal profitto, risorse pubbliche, e quindi una ridistribuzione radicale della ricchezza, contrariamente alle “riforme neoliberiste”.

Tuttavia, dopo aver criticato il “capitalismo neoliberista”, il signor Colmant si trova nella scomoda posizione di qualcuno che si ferma in mezzo al guado.

In effetti, il dogma neoliberista del libero mercato non è l’unico ostacolo sulla strada per una gestione razionale della catastrofe climatica: l’obbligo capitalistico di crescita è un altro ostacolo, ancora più fondamentale; un ostacolo che Colmant non è affatto pronto a superare. Può esistere un capitalismo non liberale, keynesiano o neokeynesiano. Ma, come dice Schumpeter, un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini. Tuttavia, senza una diminuzione del consumo finale di energia – e quindi senza una diminuzione della produzione e dei trasporti – è impossibile arrivare a “emissioni zero” nel 2050. Anche nascondendo sotto il tappeto il problema del carbonio con “compensazioni”, “cattura-sequestro” e altre “riduzioni delle emissioni fittizie”, questo è escluso.

È una necessità oggettiva: dobbiamo produrre di meno, lavorare di meno, trasportare di meno, condividere la ricchezza, curare con prudenza e democraticamente gli esseri e le cose. È necessario, in altre parole, rompere la macchina capitalista produttivista. Produttivista? Dovremmo dire “distruttivista”, da quanto è chiaro che «il capitale rovina le uniche due fonti di ogni ricchezza: la Terra e il lavoratore» (come disse Marx dopo la sua svolta anti-produttivista)5.

La guerra climatica è iniziata, ed è una guerra di classe. Con questo intendo dire che richiede un punto di vista sui reali bisogni di uomini e donne, vale a dire un punto di vista libero dall’alienazione commerciale e dalla corsa al profitto egoistico che, mettendone la testa al posto dei piedi, ribalta la realtà.

Al di fuori di un orientamento eco-socialista, internazionalista, femminista, non ci sarà salvezza. Organizziamoci per dirlo e per agire in questa prospettiva, oltre i confini, i “campi” e i “blocchi”. In breve, è tempo di osare essere rivoluzionari.

Daniel Tanuro è perito agrario certificato ed ambientalista ecosocialista, scrive per La gauche (il mensile di LCR-SAP, sezione belga della Quarta Internazionale). È l’autore di Le moment Trump (Demopolis, 2018).

Note

1. PNAS. “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene,” August 6, 2018.

2. Ibid.

3. Phys.org, 25 July 2022 “Greenland hit with ‘unusually extensive’ melting of ice sheet, boosting sea levels, scientists say,” July 25, 2022.

4. IPCC, AR6, WG2, full report, 27/2/2022.

5. Ernest Mandel. “A theory which has not withstood the test of facts,” Winter 1990