Questa crisi sanitaria e sociale, che sta provocando i primi scioperi spontanei nelle fabbriche dopo decenni, e diviene ora anche crisi economica e finanziaria, mette alla prova i sistemi capitalistici, in Italia e nel mondo intero, e scuote le coscienze in settori della nostra classe cui si chiede di lavorare comunque, anche in assenza delle condizioni di sicurezza che vengono invece imposte al resto della popolazione.
Per la prima volta da decenni assistiamo a scioperi spontanei nelle fabbriche.
Anche nella lotta per ambienti di lavoro sicuri e adeguati dispositivi di protezione individuale, e nelle difficoltà di coloro che sono lasciati a casa con un futuro incerto, deve crescere la coscienza della necessità di lottare per superare questa società divisa in classi.
Contro le ideologie da “unità nazionale” tra sfruttati e sfruttatori.
Il virus globalizzato mette inoltre in chiaro l’inconsistenza delle prospettive di autonomie locali/localistiche, e delle scorciatoie “sovraniste”.
L’unica strada è quella internazionalista, dell’unione tra i proletari di tutto il mondo.
S.I. Cobas
Coronavirus: un altro prodigio degli apprendisti stregoni.
Un altro pungolo alla lotta al capitale e al capitalismo.
Ci sono ormai sufficienti elementi per inquadrare la crisi del coronavirus da un punto di vista di classe senza limitarsi ad una generica propaganda anti-capitalista, giusta, ma insufficiente.
Lo facciamo iniziando con il sintetizzare un importante contributo che arriva dalla Cina, e afferma quanto segue:
1. L’epidemia da coronavirus non ha nulla di specificamente cinese: è il prodotto di una certa “geografia economica” globale.
Nè ha nulla di particolarmente eccezionale: è solo un anello della catena di epidemie tipiche di questo inizio secolo, prodotta dal carattere sempre più devastante assunto dal processo di accumulazione (le epidemie preesistono al capitalismo, sia chiaro, ma queste sono epidemie connesse da mille fili al capitalismo).
L’epidemia da Covid-19 non è una catastrofe naturale: è una catastrofe sociale – piccola finora, ma con la grossa variabile dello sconfinamento in Africa, che potrebbe ingigantirla a dismisura.
Non è effetto di complotti anti-cinesi né d’incauti esperimenti militari cinesi o di misteriose alchimie da dottor Stranamore: è l’esito micro-caotico di un più generale caos economico, ecologico, politico in cui sta sprofondando il mondo intero.
Un macro-caos che non è il caso di ricercare a chi sa quali profondità segrete nascoste ai comuni mortali, perché sta squadernato davanti ai nostri occhi, se si hanno gli occhi per vedere.
Queste tesi, che condividiamo, sono espresse in un testo della rivista Chuang intitolato Social contagion. Microbiological Class War in China, che ha il pregio di mettere in luce le cause locali e mondiali della nuova epidemia – le cause di cui nell’abboffata mediatica delle ultime settimane non si parla quasi mai, se non di striscio e di fretta.
La “geografia economica” che ha generato il Covid-19 è quella che ha fuso in un cocktail esplosivo una sregolata urbanizzazione, l’industrializzazione dell’agricoltura, lo sconvolgimento degli ecosistemi pre-capitalistici.
La sua probabile culla, Wuhan, ha condensato queste contraddizioni in un limitato arco di tempo e di spazio come in una pentola a pressione.
Non si tratta però di un inedito: tutt’altro.
A fine 2019 si è ripetuta lì una vecchia storia che accompagna come un’ombra l’industralizzazione capitalistica fin dall’Inghilterra del XVIII secolo: è la storia delle pratiche capitalistiche in agricoltura e dello sventramento di contesti naturali ancora (relativamente) intatti per edificare o ingigantire i centri urbani; processi che liberano agenti patogeni rimasti fino ad un dato momento isolati e sconosciuti, e li portano a circolare nel mondo intero e a sottoporsi, nella loro sempre più veloce circolazione, a molteplici, aggressivi mutamenti e passaggi di specie.
L’età dell’oro della produzione e circolazione delle moderne epidemie globali (sia detto, questo, senza idealizzare in alcun modo il pre-capitalismo) comincia, se cerchiamo una data-simbolo, con il 1918, l’anno della terribile influenza spagnola, e coincide con l’epoca dell’imperialismo.
Che è stata l’età dell’oro della mondializzazione dei rapporti sociali capitalistici, delle guerre del capitale, della distruzione della bio-diversità, del cambiamento sempre più rapido delle temperature dell’aria, dei suoli, delle piogge associati alla catastrofe ambientale in corso.
Va da sé che queste epidemie (lo “sciame virale che attraversa la terra”, l’ha chiamato una virologa) portano un segno di classe tanto nella loro genesi quanto nelle loro vittime predilette.
Sicché non è una forzatura ideologica parlare di “guerra di classe microbiologica” in Cina, qui, e ovunque.
In questo tempestoso inizio di secolo tale guerra pare velocizzarsi, come ogni altra dinamica, e allargarsi, alimentata dalle molteplici crisi dell’ecosistema globale e degli ecosistemi locali.
Nel giro di pochi anni si è verificata una sequenza serrata di epidemie maggiori, aviarie, suine, da cammelli (Sars, Mers, Ebola, Zika) e di tante epidemie minori – secondo l’Oms tra il 2011 e il 2018 ci sono stati 1.483 eventi epidemici in 172 paesi!
Siamo davanti alla “ribellione” alla specie umana delle specie animali addomesticate, da noi forzate ad essere dopate e torturate negli allevamenti intensivi, e di quelle non domesticate, colpite con il selvaggio sventramento dei suoli e dei loro habitat millenari.
Una specie umana rappresentata, fin che non gli toglieremo la delega, dai rapacissimi capitali dell’agribusiness, della rendita immobiliare, delle mega-imprese che delocalizzano i propri impianti, specie i più nocivi, nei paesi del Sud del mondo.
Questa “ribellione” va di pari passo con la rivolta degli ecosistemi, e segna un’intera epoca, la nostra, in cui “la distruzione [degli ambienti naturali, ambienti di vita degli esseri umani e delle specie non umane] è causata da un’accumulazione [di capitale] senza fine estesa da un lato verso l’alto, il sistema climatico mondiale, dall’altro verso il basso dentro i substrati micro-biologici della vita sulla terra”.
2. E lo stato, l’inseparabile complice del capitale in tutti i suoi fasti e misfatti, come se l’è sbrigata?
I compagni di Chuang ci parlano dello stato cinese, e ne fotografano il procedere contraddittorio, a zigzag.
Prima la negazione, la punizione dei “colpevoli” di procurato allarme – mai allarmare la massa della popolazione!, specie se, come a Wuhan, è stata protagonista di grossi scioperi e manifestazioni.
Quindi l’ammissione del problema, l’obbligata scarcerazione e le scuse pubbliche per il caro (alla suddetta massa) dottor Li, che aveva colto per tempo il nuovo pericolo, e la punizione degli incapaci capi locali del partito.
Infine, l’imposizione di regole draconiane, da “contro-insurrezione interna”, sul tipo di quelle applicate dal colonialismo francese in Algeria e da Israele in Palestina.
Secondo i redattori di Chuang la combinazione tra forme dure di repressione, misure restrittive dal timbro militare e appello alla mobilitazione volontaria dei quadri e della popolazione locale, rivela “un’incapacità profonda dello stato cinese, che è esso stesso in piena costruzione”.
Non siamo così certi di questo loro giudizio; ma anche da lontano si coglie un certo scollamento tra apparato statale e massa della popolazione lavoratrice, con alcune battute a vuoto delle autorità cinesi nel loro sforzo di essere credibili.
Quel che invece è certo è che l’esplodere dell’epidemia ha messo in risalto come il sistema sanitario cinese dei tempi affluenti (quelli attuali) sia più debole e inefficace, nel fornire le cure di base universali, rispetto al sistema sanitario dei tempi di Mao (tempi di povertà diffusa), che era stato capace di innalzare la speranza di vita da 45 a 68 anni e garantire l’accesso gratuito di tutti alle medicine e alle informazioni essenziali – un miracolo, questo, non del grande timoniere, ma della rivoluzione anti-coloniale.
Impressiona soprattutto il livello di scopertura sanitaria dei mingong, gli emigrati interni: solo il 22% di loro ha un’assicurazione medica di base.
La spesa sanitaria pro-capite della Cina è attualmente la metà di quella di Bulgaria, Bielorussia o Brasile nonostante la Cina sia, per valore del pil, la seconda economia del mondo.
Un esempio da manuale di socialismo realizzato.
La già avvenuta semi-privatizzazione del sistema sanitario e l’impunità accordata a tanti imprenditori privati che si sottraggono ai versamenti necessari per farlo funzionare, lasciano intendere la direzione di marcia: si va verso il “disinvestimento statale massiccio nel sistema sanitario”.
Da qui il ritardo con cui si è mosso l’intero apparato.
Né si vedono i segni di un’inversione di rotta.
Anzi: se, come sembra, dovesse avere successo l’opera di contenimento della diffusione del coronavirus a tutto il territorio nazionale; e se, come è scontato, ci sarà un pesante impatto negativo di questa crisi sanitaria sull’economia cinese; un’inversione di rotta è esclusa.
Con i suoi tempi e i suoi modi, anche la Cina di Xi metterà tra il diritto alla salute e la tutela effettiva, universale della salute la gelida mediazione del denaro in contante. Tutt’al più, come suggerisce il recente documento della Banca mondiale The Changing Nature of Work, si tratterà di garantire a tutti (o quasi) un livello minimo di welfare socio-sanitario.
Ciò, a fronte delle epidemie in serie previste dall’Oms, nonché della intensificazione ed estrema precarizzazione del lavoro, che fanno ammalare scheletri muscoli cervelli di centinaia di milioni di donne e di uomini, dell’inquinamento senza precedenti…
3. Quanto all’Italia, l’irruzione del Covid-19 ha reso più grottesche che mai le sparate a salve “sovraniste” sulla chiusura delle frontiere.
Tanto più se compiute dai leghisti che hanno fatto della promozione delle esportazioni italiane nel mondo la loro missione di vita; o da quegli ultrafessi “di sinistra” che sognano di liberarsi dalla Germania per nuotare da soli e sovrani nel mercato mondiale – una volta che l’Italia fosse fuori dal maledetto euro, infatti, i virus girerebbero al largo per celebrarne la sovranità riconquistata…
Anche in Italia il governo ha oscillato in modo vistoso, ma con una sequenza diversa rispetto a quello cinese.
Prima c’è stata la semina di terrore, sempre e comunque utile ad atomizzare e far accettare la necessità emergenziale di ordine.
Quindi, i messaggi rassicuranti e in qualche modo minimizzanti. Infine le misure “alla Xi Jinping”, con la chiusura prima della Lombardia e delle altre aree più infette, poi dell’intero territorio nazionale.
Questa oscillazione, frutto di impreparazione, mostra tutta la fragilità del capitalismo nazionale davanti a un inatteso effetto di rimando della globalizzazione, che ha colpito non a caso proprio l’area più internazionalizzata dell’Italia.
Per quanto contrastanti siano i pareri degli scienziati, questa non pare essere, al momento, “la pandemia da virus respiratorio altamente letale e in rapido movimento, capace di uccidere da 50 a 80 milioni di esseri umani e di spazzar via quasi il 5% dell’economia mondiale”, preconizzata nel settembre scorso dal Global Preparedness Monitoring Board in A World at Risk (p. IV).
E allora, cosa giustifica le misure da stato di guerra prese dal governo Conte bis e invocate, perfino in forme più estreme, dall’opposizione di destra?
La ragione più immediata è stata più volte dichiarata: le strutture sanitarie pubbliche sono a un passo dal collasso anche al Nord, bisogna perciò in tutti i modi rallentare il contagio.
L’Italia degl’intoccabili F-35 e delle trenta missioni militari all’estero, l’Italia settima-ottava potenza industriale del mondo, ha su tutto il territorio nazionale la miseria di 5.000 posti in terapia intensiva (e un ventilatore polmonare costa da 4 mila a 17 mila euro)!
Il taglio di oltre 100.000 medici e infermieri, di oltre 70.000 posti letto, di 37 miliardi di finanziamenti in 10 anni (su un fondo sanitario nazionale intorno ai 115 miliardi) e l’assenza di qualsiasi forma di preparazione a prevenire e a fronteggiare le epidemie globali in via di moltiplicazione, non poteva produrre altro risultato.
E questo stato di cose è una condanna senz’appello per le politiche di amputazione del sistema sanitario nazionale attuate negli ultimi vent’anni da tutti i governi, di destra centro sinistra, da tutte le regioni, di destra centro sinistra, con all’avanguardia le luccicanti stelle leghiste: Lombardia e Veneto.
I provvedimenti di estrema emergenza presi dal governo Conte bis, apparentemente assurdi, servono ad occultare le inefficienze e i vuoti nella tutela della salute della popolazione creati, concriminale metodicità, da decenni di tagli alle strutture pubbliche e di privatizzazione della sanità, deliberati dalle camarille affaristiche al soldo delle grandi industrie e dei boss della sanità privata – un nome per tutti: la banda Formigoni.
In quegli stessi decenni è stato brutalmente precarizzato il lavoro del personale sanitario.
Ora tanto il governo Pd-Cinquestelle quanto l’opposizione di destra vogliono evitare a tutti i costi che in un paese sempre più privo di “eccellenze” e di miti fondativi, crolli uno degli ultimi miti del capitalismo made in Italy: la “eccellenza-sanità”.
Bisogna evitare a tutti i costi che il sistema-Italia appaia anche in questo campo per quello che realmente è: un capitalismo che riesce a difendere il proprio ranking internazionale di componente del Club imperialista occidentale solo ed esclusivamente schiacciando sempre più verso il basso i bisogni, le aspettative (ormai anche le aspettative di vita), i diritti dei lavoratori.
Solo degli immigrati?
No, degli immigrati e degli autoctoni.
Ma c’è anche una ragione più profonda e generale di misure che appaiono esagerate, e stanno portando per giunta ingenti danni all’economia: usare l’occasione offerta dalla crisi del coronavirus per imporre a tutte le classi, sottoclassi e mezze classi, einnanzitutto ai lavoratori, un clima da coesione nazionale.
Il governo Conte bis, che è arrivato a questa crisi in grande affanno, sta cercando di recuperare fiato.
E sopra di esso il regista del Quirinale è tornato a esporsi al proscenio per giocare, nell’interesse dell’intera classe capitalistica, la carta dell’unità d’intenti intorno più che al governo, alle istituzioni dello stato.
Obbligato a ciò dalla situazione confusa e sfilacciata, densa di conflitti tra governo e regioni, tra regioni e sindaci, tra alleati di governo e alleati dell’opposizione, e di colpi sotto la cintura inferti all’Italia dai fratelli-coltelli europei.
I poteri forti, di cui Mattarella è ottimo interprete, provano a cogliere l’occasione infausta per rottamare il M5S, spingere all’angolo figure ormai da avanspettacolo (Di Maio, Renzi), mettere ordine nella Lega, statizzare ancor più Cgil-Cisl-Uil come organismi di controllo dei lavoratori, soffiando sullo (scarso) orgoglio nazionale per limitare i danni e rilanciarci domani “tutti uniti e tutti insieme”.
Con gli inquietanti spettri del super-banchiere Mario Draghi e di un super-commissario (di polizia) sullo sfondo…
L’imposizione di regole rigide (apparentemente tali) “per tutti” ha per destinatari da un lato i ceti medi, dall’altro la classe lavoratrice.
Ai primi, sia a quelli accumulativi, a cui era stato lasciato negli ultimi anni il guinzaglio troppo lasco, sia a quelli salariati o stipendiati, piuttosto bastonati, si chiede un po’ di disciplina – quella disciplina che è generalmente mancata alla moltitudine di padroncini, commercianti e simili, per l’abitudine inveterata a godere di ogni sorta di esenzione fiscale, rendite di posizione, privilegi corporativi.
Una disciplina oggi necessaria anche per imporre il pugno di ferro sulla massa dei lavoratori e stroncare sul nascere, è questo il sogno, ogni forma di conflitto sociale.
Non che la classe operaia metta angoscia ai piani alti del potere: la conflittualità è, all’oggi, a livelli infimi.
Ma tra l’inevitabile recessione, le guerre in Medioriente, le crisi ambientali e sanitarie, ciò che si prospetta è un’ulteriore polarizzazione sociale, un’ulteriore imposizione di sacrifici e di repressione.
Per chi sta ai piani alti è meglio intervenire a tempo iniziando a sperimentare misure di duro contenimento di movimenti e diritti, primo tra tutti la libertà di organizzazione e di lotta degli sfruttati.
La semina dall’alto di paure, psicosi sociali e razzismo, razzismo anti-cinese in questa occasione (anche se non c’è un solo cinese ammalato di coronavirus in Italia), le rigide misure di isolamento nelle case, servono a rendere il più difficile possibile la risposta di classe.
Mattarella, Conte & Co. contano sul fatto che paure, psicosi sociali, impulsi razzisti sono anche il portato spontaneo, “dal basso”, di una condizione di vita sempre più instabile e minacciata da incognite incontrollabili.
Tuttavia, per quanto siano abili nel mistificare e spargere veleni, non potranno a lungo nascondere che la sola funzione a cui lo stato e il governo sono arrivati attrezzati in questa emergenza è la funzione repressiva.
Non sono in grado di attrezzare sufficienti reparti di terapia intensiva; costringono il personale ospedaliero insufficiente a spossanti sovraccarichi di lavoro, e perfino a “decidere” quali cittadini provare a curare e quali lasciare morire; non trovano quattro euro per retribuire a pieno i congedi parentali; non hanno pensato a prendere la minima misura cautelare per i detenuti ammassati nelle carceri; ma a sguinzagliare polizia, carabinieri, esercito, a militarizzare i territori, in questo sono professionali!
Con il governo di centro-sinistra e la ministra Lamorgese in grado di fare di più e meglio di Salvini, a cominciare dalla cancellazione delle manifestazioni dell’8 marzo.
Salvo la beffa, per le donne impossibilitate a portare in piazza le proprie rivendicazioni e la propria rabbia, di sentirsi lodare dall’ineffabile Mattarella per “essere in prima fila” nella lotta… contro il virus.
4. La nostra risposta alla crisi del coronavirus (doppiata dalla recessione) e al suo uso da parte dei padroni, delle banche, del governo, dello stato, si deve articolare a piùlivelli, tenendo conto che l’attuale stato di shock, di paura e quasi di paralisi vissuto dalla gran parte dei lavoratori e dei cittadini comuni, è destinato a lasciare il campo a sentimenti di tutt’altro tipo quando l’emergenza sarà superata e si dovrà fare i conti con i pesantissimi danni che l’asse governo/padronato cercherà di scaricare sulle spalle dei lavoratori.
C’è un primo livello di risposta immediato, sindacale o sindacal-politico, già assunto dal SI Cobas e da altri organismi: invitare e organizzare i lavoratori a prendere nelle loro mani la difesa della salute loro e di tutta la popolazione, a cominciare da quelli della sanità, i più colpiti finora perché mandati in prima linea nella “guerra al virus”, senza che le più elementari norme di precauzione venissero rispettate.
La misura del disprezzo di stato e governo, del disinteresse, dell’incuria, del cinismo dei padroni verso chi deve lavorare a salario è espresso dal fatto che milioni di operai, operaie, salariati/e sono tuttora coatti a recarsi ogni giorno al lavoro a loro rischio e pericolo; il risultato è che non si contano più le fabbriche, i magazzini e gli altri luoghi di lavoro in cui è entrata l’infezione.
Bisogna pretendere rigide misure di protezione della salute di questi milioni di lavoratori, che è anche la salute dei loro familiari e di quanti vengono a contatto con loro – raccogliendo e generalizzando l’esempio degli operai FCA di Pomigliano che hanno fermato la produzione per questo motivo, scavalcando la colpevole inerzia di
Fiom-Fim-Uilm. Bisogna rivendicare un piano di assunzioni straordinario nella sanità pubblica che non si limiti a quello sbandierato dal governo Conte, e conduca al reintegro totale della scopertura creata dalle politiche di austerità, con il totale l’assorbimento dell’enorme area di precariato.
Imporre la requisizione senza indennizzo delle strutture della sanità privata, ultra-beneficiate dallo stato e ora pronte fare profitti sul collasso delle Asl.
Rivendicare misure che tutelino in pieno i posti di lavoro e i salari di quanti/e dipendono da imprese o enti costretti al fermo totale delle attività, non consentendo al governo di risparmiare sul sostegno alle famiglie, in particolare alle donne, per largheggiare, come al solito, con i regali alle imprese.
Impedire che il lavoro a casa diventi una forma abituale di lavoro segretato e segregante, e che le lezioni a distanza soppiantino la vita scolastica in diretta.
Denunciare l’impunità accordata da stato e governo ad ogni genere di speculazione affaristico-securitaria sulle forniture agli enti ospedalieri, ai comuni, ai singoli cittadini, come se si trattasse di qualcosa di inevitabile.
E soprattutto e prima di tutto respingere al mittente la pretesa di azzerare gli scioperi, le lotte, l’organizzazione di classe, i contratti di lavoro in scadenza, mentre si dà modo ai capitalisti o ai direttori delle Asl di usare l’emergenza per i propri scopi.
Non possiamo assolutamente cedere al terrorismo di stato contro ogni forma di socialità!
Per questo è della massima importanza continuare ad esercitare, con gli accorgimenti del caso, il diritto di sciopero, organizzare assemblee sui luoghi o fuori dai luoghi di lavoro, trovare il modo di manifestare, senza arrendersi alla pretesa degli apprendisti stregoni che ci hanno scaraventato in questo disastro, di esercitare il loro comando sulla società e sulla nostra classe come e più di prima.
Abbasso la militarizzazione dei territori, della vita sociale, dei luoghi di lavoro!
Il disastro in atto è in tutto e per tutto capitalistico, e i suoi costi non debbono essere scaricati sui proletari e sulle proletarie.
Non barattiamo i nostri diritti e le nostre libertà in cambio di una “sicurezza” regalata da chi ci ha condotti nel terreno di tutte le insicurezze!
Ecco anche perché va respinto ogni tentativo, pilotato o “spontaneo” che sia, di andare alla ricerca degli “untori” nella massa della popolazione, magari in gruppi di giovani che non rinunciano a una qualche forma di socialità, o in quanti hanno deciso di ritornare al Sud vicino ai propri cari, o in noi che intendiamo continuare a riunirci e organizzare lotte: gli untori – o l’Untore – stanno altrove!
C’è ancora un altro livello di risposta, pienamente politico, e riguarda le misure di politica economica messe in campo dal governo e dal padronato per contrastare l’avvento, certo, di una pesante recessione e far fronte alle spese straordinarie più immediate.
Da Salvini a Leu fino ai manipoli “rosso”-bruni la ricetta è unanime: fare deficit.
La destra ha presentato un piano-bazooka da 20-30 miliardi, c’è chi parla anche di 50, tutti in deficit.
Hanno riesumato perfino la salma di Mario Monti per fargli dire: “fare debito è un male necessario”.
E gli ultra-fessi “di sinistra” che credevano possibile un no dell’Europa, sperando di ritrovarsi finalmente spalla a spalla con le destre storiche e i 5S a combattere l’epica battaglia, sono rimasti delusi.
Su questo, con il Pd nel ruolo del frenatore, c’è già l’unità nazionale.
E l’UE non dirà di no, a meno di volersi suicidare.
La lite, se lite c’è o ci sarà, è sui dettagli e i benefici (ognuno ha i suoi distinti interessi, le sue nicchie e cosche da proteggere), non sulla sostanza: fare altro deficit e, inutile a dirsi, accollarlo per intero (o quasi) alla classe lavoratrice.
Come avviene per tutto il debito di stato, che non è altro se non un debito di classe: “l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso dei popoli moderni”; in “possesso”, beninteso, come onere verso i creditori dello stato, i reali proprietari dello stato.
Le politiche trumpiane lo stanno ingigantendo, e anche in Italia crescerà perché da ogni parte, come misura anti-crisi, si reclama un ulteriore taglio dei prelievi statali sul capitale.
Parola di Citigroup (un group da 72 miliardi di dollari di fatturato, la sua parola pesa): è in arrivo, se non è già arrivato, il “cigno nero”, il denaro a zero interesse non è più sufficiente, urge tagliare le tasse (alle imprese).
Per noi, invece, urge battersi per invertire la rotta che negli ultimi 40 anni ha portato ad una formidabile detassazione alla scala mondiale dei profitti, delle rendite e dei patrimoni più ingenti, l’altra faccia delle politiche di austerità per la classe lavoratrice e per settori sempre più ampi dei ceti medi.
Urge opporre la necessità di una forte patrimoniale sul 10% dei più ricchi, che dispone di una ricchezza reale e finanziaria pari ad almeno 4.000 miliardi.
Urge un provvedimento che, invece di gravare su quanti vivono del proprio lavoro, cominci a espropriare gli espropriatori.
Che con l’ulteriore crescita del debito di stato, invece, contano non solo di svuotare le tasche dei lavoratori, ma anche di rafforzare la propria presa sul potere politico.
Questa è la doppia, grande posta in gioco quando si tratta della questione fiscale.
E non sarà mai troppo presto afferrarne il contenuto di classe: per loro e per noi.
5. C’è infine un ulteriore livello della risposta da dare agli apprendisti stregoni locali e globali: chiamiamolo pure di sistema.
Non è certo il meno importante, anzi è quello, decisivo. L’epidemia di Covid-19, dicevamo in partenza insieme con i compagni cinesi, non è un’imprevedibile emergenza, è l’inevitabile effetto di una catena di cause in tutto e per tutto capitalistiche, che preparano una serie di catastrofi economiche, sociali, ecologiche, belliche – a proposito: fate caso ai 30.000 soldati statunitensi che stanno sbarcando in Europa non per regalare ventilatori polmonari, ma per esercitarsi a una futura grande guerra verso Est.
La decadenza storica di questo sistema sociale, che è altra cosa dagli indici del pil e si esprime nell’eccedenza di distruzione di energie vitali, ambienti di vita, forme di solidarietà che ogni sua innovazione comporta, mette ormai a rischio la stessa sopravvivenza della specie.
La rivoluzione sociale è meno che mai un imperativo volontaristico, un’anticipazione.
Il pericolo è, semmai, quello di un ritardo che può diventare fatale.
Ecco perché non possiamo limitarci a parare i colpi immediati della nuova crisi capitalistica, respingendo la messa in quarantena delle lotte e i nuovi sacrifici che si preparano ad accollarci.
Né ci si può accontentare di puntare il dito sulle singole cause di questa crisi, prese le une separate dalle altre, senza mettere in causa l’intero ordinamento sociale che produce questi orrori.
È quel che fanno quasi tutti gli ecologisti, pensando di poter prendere il toro per la coda anziché per le corna.
“Solo una rivoluzione ci salverà”, ha saputo dire la Klein, salvo contraddirsi in pieno e accontentarsi del pallidissimo riformismo di un Sanders.
La formula che ha coniato, però, è (quasi) giusta: solo la rivoluzione ci salverà.
La rivoluzione sociale degli sfruttati, la cui prospettiva dovrà “includere il potenziale di un naturalismo pienamente politicizzato”, per dirla con i compagni di Chuang, con il ritorno alla nostra formula programmatica originaria, anti-specista ante litteram: “questo comunismo [il nostro] s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, con il naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo” (Marx).
Fummo costretti in Russia, un secolo fa, a farci carico dello sviluppo delle forze produttive in un paese arretrato e dissestato, a mettere in moto l’elettrificazione con i soviet nell’attesa attiva di una rivoluzione sociale in Europa che fu impedita con il ferro e il fuoco.
Attaccammo in anticipo, come sempre è delle classi rivoluzionarie che fremono per un nuovo mondo (accadde anche ai borghesi).
Ma ora anche queste crisi da epidemie ci dicono: non c’è altro tempo da attendere.
Il tempo è oggettivamente maturo, il tempo è questo.
A dirlo sono pure i più illuminati esponenti delle “scienze dure”, le scienze naturali, quelli che non si accontentano di rincorrere gli eventi, e di ridurre i danni portando un po’ di ordine e tranquillità là dove il sistema sociale del capitale ha prodotto caos e terrore.
La loro critica del rapporto tra capitalismo e natura non umana, va assolutamente integrata con la critica dei rapporti sociali capitalistici.
Questa critica ha dimostrato che niente di serio è stato fatto, ad esempio, contro le cause della febbre suina e delle altre epidemie recenti.
Ha denunciato e denuncia che i flagelli epidemici e quelli direttamente provocati dalle catastrofi ecologiche già hanno, e tanto più avranno, un impatto devastante su aree ampissime del Sud del mondo, in particolare nell’Africa sub-sahariana (pensiamo all’invasione delle locuste in Somalia ed Etiopia).
E ricorda agli smemorati eurocentrici che anche in questa materia c’è un versante coloniale/neo-coloniale, e perciò anti-coloniale, per effetto di processi globali che hanno comunque in Occidente i loro centri di comando e i loro primi beneficiari.
Insomma: se l’epidemia del coronavirus è l’ennesimo prodigio del sistema sociale capitalistico, è al tempo stesso un pungolo alla lotta contro il capitale, contro il capitalismo.
Un pungolo ad organizzarci per questa lotta, da internazionalisti e internazionalmente, proletari del Nord e del Sud del mondo, autoctoni e immigrati, uniti come le dita di un pugno chiuso.
10 marzo
Il Cuneo rosso – Gcr – Pagine marxiste
Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Laboratorio politico Iskra